martedì 29 dicembre 2009
venerdì 25 dicembre 2009
domenica 20 dicembre 2009
sabato 12 dicembre 2009
martedì 8 dicembre 2009
Hanno scoperto l'Eden, ma il taglialegna è in agguato
Allestito un centro di osservazione naturalistica in una foresta del Borneo, il Maliau Basin, esplorata per la prima volta cinque anni fa. Scoperti animali e piante sconosciute.
Ci sono solo due modi per raggiungere, e lasciare, il Lost World, il Mondo Perduto: a piedi e in elicottero. Si trova nel quadrante centromeridionale dello Sabah, territorio malese nel nord del Borneo. Il suo nome geografico e' Maliau Basin, un altopiano di 398 chilometri quadrati e del diametro di venticinque, cirocondato da una scarpata semicircolare che si distende per circa quaranta chilometri e nel punto piu' alto sfiora i 1900 metri. L'interno di questo vero e proprio bacino, interamente coperto dall' alta giungla, appare come l' immenso cratere di un vulcano spento. Il Maliau Basin e' uno dei pochissimi luoghi del Pianeta praticamente inesplorati. La prima spedizione e' avvenuta nel 1988, organizzata dalla Sabah Foundation, societa' dell' industria del legname che ha in concessione quasi un milione di ettari di territorio. La seconda spedizione si e' svolta in diverse riprese nel corso del 1993 e si e' conclusa in occasione del Camel Trophy i cui partecipanti hanno completato l' allestimento di un centro di osservazione naturalistica che accogliera' spedizioni di ricercatori. Di fronte a questo centro c' e' uno spiazzo dove atterra l' elicottero. Decollando dalla radura, sembra di risalire da un pozzo profondo decine di metri, circondati da giganteschi tronchi di Agathis e Casuarina. A una quota di circa 1500 metri l' oceano verde della foresta pluviale appare piagato dai segni della deforestazione: le ferite delle aree disboscate, le cicatrici delle piste aperte nel folto per trasportare tronchi che a ogni metro verso i porti moltiplicano il loro valore. L'area del Maliau Basin suscita notevoli interessi sia per la sua ricchezza forestale sia, soprattutto, per i suoi depositi di carbone. La Sabah Foundation lo ha dichiarato area protetta ma, senza un preciso impegno scientifico e senza una precisa conoscenza del suo valore ecologico, questo potrebbe rivelarsi una pura e semplice dichiarazione d'intenti, per altro gia' contestata da forze di governo e da grandi corporation. L'unico mezzo per proteggere questo straordinario ecosistema e' di trasformarlo in una sorta di immenso laboratorio per lo studio della foresta pluviale e sviluppare un progetto ecoturistico. Per capire veramente che cosa rappresenta un territorio come questo bisogna attraversarlo a piedi, ma anche cosi' si puo' osservare solo una minima parte della vita presente in questo mondo perduto. La base di monitoraggio organizzata nel Maliau Basin e' in posizione "strategica". Da qui si possono facilmente raggiungere e osservare le diverse realta' naturali dell' area. Il fiume, ad esempio. Le acque hanno il colore di un te' molto carico, ma limpido. Un fenomeno dovuto alle sostanze vegetali che vi sono dissolte. Una volta filtrata quest'acqua ha un sapore squisito, leggermente acidulo. E vicino all' acqua i fiori, che rappresentano una delle peculiarita' piu' interessanti del Maliau Basin. Qui si trova una delle specie piu' rare di Rafflesia, il fiore piu' grande del mondo, un parassita che una volta dischiuso puo' raggiungere i novanta centimetri di diametro: e' la Rafflesia tengku adlini, scoperta dal principe Tangku Adlin, uno dei dirigenti dalla Sabah Foundation, impegnato nell' esplorazione delle aree selvagge del Paese. Nel Maliau Basin sono state scoperte anche due specie di piante carnivore, qui diffusissime, la Nepenthes veitchi e la Nepenthes stenophylla. Tra la vegetazione sono stati osservati pochi anfibi e rettili, ma tra questi un grande esemplare di pitone reticolato, mentre sono numerose le specie di uccelli che vi nidificano: 175. In questo mondo perduto vivono ancora mammiferi altrove in via di estinzione: la scimmia dalla proboscide (Nasalis larvatus), il giaguaro maculato (Neofelis nebulosa) e il rinoceronte di Sumatra (Dicerhinus sumatrrensis). Ma la specie piu' rara del Lost World, ancora, e' un' altra: l'uomo.
Ci sono solo due modi per raggiungere, e lasciare, il Lost World, il Mondo Perduto: a piedi e in elicottero. Si trova nel quadrante centromeridionale dello Sabah, territorio malese nel nord del Borneo. Il suo nome geografico e' Maliau Basin, un altopiano di 398 chilometri quadrati e del diametro di venticinque, cirocondato da una scarpata semicircolare che si distende per circa quaranta chilometri e nel punto piu' alto sfiora i 1900 metri. L'interno di questo vero e proprio bacino, interamente coperto dall' alta giungla, appare come l' immenso cratere di un vulcano spento. Il Maliau Basin e' uno dei pochissimi luoghi del Pianeta praticamente inesplorati. La prima spedizione e' avvenuta nel 1988, organizzata dalla Sabah Foundation, societa' dell' industria del legname che ha in concessione quasi un milione di ettari di territorio. La seconda spedizione si e' svolta in diverse riprese nel corso del 1993 e si e' conclusa in occasione del Camel Trophy i cui partecipanti hanno completato l' allestimento di un centro di osservazione naturalistica che accogliera' spedizioni di ricercatori. Di fronte a questo centro c' e' uno spiazzo dove atterra l' elicottero. Decollando dalla radura, sembra di risalire da un pozzo profondo decine di metri, circondati da giganteschi tronchi di Agathis e Casuarina. A una quota di circa 1500 metri l' oceano verde della foresta pluviale appare piagato dai segni della deforestazione: le ferite delle aree disboscate, le cicatrici delle piste aperte nel folto per trasportare tronchi che a ogni metro verso i porti moltiplicano il loro valore. L'area del Maliau Basin suscita notevoli interessi sia per la sua ricchezza forestale sia, soprattutto, per i suoi depositi di carbone. La Sabah Foundation lo ha dichiarato area protetta ma, senza un preciso impegno scientifico e senza una precisa conoscenza del suo valore ecologico, questo potrebbe rivelarsi una pura e semplice dichiarazione d'intenti, per altro gia' contestata da forze di governo e da grandi corporation. L'unico mezzo per proteggere questo straordinario ecosistema e' di trasformarlo in una sorta di immenso laboratorio per lo studio della foresta pluviale e sviluppare un progetto ecoturistico. Per capire veramente che cosa rappresenta un territorio come questo bisogna attraversarlo a piedi, ma anche cosi' si puo' osservare solo una minima parte della vita presente in questo mondo perduto. La base di monitoraggio organizzata nel Maliau Basin e' in posizione "strategica". Da qui si possono facilmente raggiungere e osservare le diverse realta' naturali dell' area. Il fiume, ad esempio. Le acque hanno il colore di un te' molto carico, ma limpido. Un fenomeno dovuto alle sostanze vegetali che vi sono dissolte. Una volta filtrata quest'acqua ha un sapore squisito, leggermente acidulo. E vicino all' acqua i fiori, che rappresentano una delle peculiarita' piu' interessanti del Maliau Basin. Qui si trova una delle specie piu' rare di Rafflesia, il fiore piu' grande del mondo, un parassita che una volta dischiuso puo' raggiungere i novanta centimetri di diametro: e' la Rafflesia tengku adlini, scoperta dal principe Tangku Adlin, uno dei dirigenti dalla Sabah Foundation, impegnato nell' esplorazione delle aree selvagge del Paese. Nel Maliau Basin sono state scoperte anche due specie di piante carnivore, qui diffusissime, la Nepenthes veitchi e la Nepenthes stenophylla. Tra la vegetazione sono stati osservati pochi anfibi e rettili, ma tra questi un grande esemplare di pitone reticolato, mentre sono numerose le specie di uccelli che vi nidificano: 175. In questo mondo perduto vivono ancora mammiferi altrove in via di estinzione: la scimmia dalla proboscide (Nasalis larvatus), il giaguaro maculato (Neofelis nebulosa) e il rinoceronte di Sumatra (Dicerhinus sumatrrensis). Ma la specie piu' rara del Lost World, ancora, e' un' altra: l'uomo.
sabato 5 dicembre 2009
venerdì 4 dicembre 2009
L'arte antica in Italia
L'Italia antica non aveva unità etnica né culturale: era un mosaico di popoli diversi per l'origine, le tradizioni, i costumi, la lingua. A nord del Po era già la terra dei "barbari" , galli e germani; il meridione era un lembo di Grecia. La sola cultura autoctona, sebbene anch'essa fortemente influenzata dall'arte greca, era l'etrusca, nelle regioni centrali. La stessa cultura romana, che finirà per dominare tutta la penisola, ha le sue radici nella greca; ma la combina, nel suo sviluppo storico, con la tradizione etrusca e la rinnova accogliendo largamente le infiltrazioni barbariche.
La Magna Grecia
Le sole regioni italiane che abbiano conosciuto la grande stagione classica sono quelle del meridione e della Sicilia. Tutte le antiche città calabre (Taranto, Locri, Sibari, Crotone, Reggio etc.) e sicule (Siracusa, Agrigento, Segesta, Gela etc.) sono i prodotti della colonizzazione greca, incominciata nell'VIII secolo: l'arte che vi fiorisce è arte greca, i complessi monumentali di Pesto, Selinunte, Agrigento sono i più importanti tra quanti ne rimangono del mondo greco. Quasi nessuna importanza hanno, nella cultura artistica della Magna Grecia, le deboli sopravvivenze protostoriche in taluni aspetti del culto e del rito o le tenui inflessioni dettate dal gusto locale. I soli caratteri distintivi sono: una certa irregolarità nella ripetizione delle proporzioni originali e una certa mescolanza di motivi, dovuti anche al fatto che gli architetti e gli scultori greci operosi nella Magna Grecia provenivano da regioni e da tradizioni figurative diverse; una certa esuberanza negli apparati decorativi, spesso di terracotta colorata; una qualche mollezza nel modellato architettonico e scultorio, dovuta essenzialmente all'impiego di un calcare tenero, poroso, dorato.
L'arte etrusca
Del popolo etrusco, che da principio si insediò lungo la costa e il retroterra tirrenico, tra il corso dell'Arno e quello del Tevere, è incerta la provenienza; né
molto si sa, malgrado l'abbondanza dei documenti e il progresso degli studi relativi, circa la loro lingua, la religione, il costume.
Le prime manifestazioni culturali risalgono alla fine del IX, e al principio dell'VIII secolo; nel II secolo il ciclo della civiltà etrusca si chiude dopo avere compreso nel proprio ambito la pianura padana (con la città di Spina presso Ferrara) al nord e la costa tirrenica fino alla Campania, a sud. Roma stessa, fino al I secolo a.C., è sotto la diretta influenza della cultura etrusca.
Era, l'etrusco, un popolo industrioso, che sapeva sfruttare i ricchi giacimenti metalliferi, la fertilità del suolo, la posizione geografica propizia ai traffici marittimi con tutti i paesi mediterranei. La sua civiltà era essenzialmente urbana: le città generalmente protette da forti cinte murarie, si succedevano a
brevi distanze lungo le vallate del Tevere e dell'Arno: Arezzo, Cortona, Chiusi, Perugia e, appartate, le due più ricche e potenti, Cerveteri e Tarquinia. La società era chiusa e conservatrice, gelosa delle proprie tradizioni e costumanze. Aveva un profondo, oscuro sentimento del sacro: a lungo ha conservato culti arcaici, della protostoria italica. La composizione del suo Olimpo è tuttora imprecisamente nota: ciò che fa sospettare, scrive M. Pallottino, "la credenza originaria di una certa entità divina, dominante nel mondo attraverso manifestazioni occasionali e molteplici che si concretano in divinità, gruppi di divinità, spiriti" . Regnava sul mondo una sorta di Fortuna, forza misteriosa che veniva evocata o scongiurata con pratiche divinatorie (ars aruspicina). Proprio il senso concreto, positivo, pratico della vita rende più misteriosa e paurosa la dimensione della morte. Incombente e terrifica era la visione dell'aldilà, gremito di geni infernali: bisognava dunque contrastare, annullare gli effetti della morte, conservare al di là di essa le sembianze, i modi, la sostanza stessa della vita. Tutta l'arte etrusca è destinata alla tomba, ma partendo dall'idea che nella tomba si deve conservare qualcosa della vita reale, anche fisica. Se si passa dalla sepoltura per inumazione all'incinerazione, è ancora per impedire il disfacimento totale: le ceneri sono, comunque, qualcosa di reale, che non può più corrompersi e si conserva per sempre. Quanto alla tomba, al ricetto del morto, può essere casa o immagine della casa oppure del corpo umano stesso: l'importante è che, attraverso la tomba o l'urna, la persona possa in qualche modo reintegrarsi alla realtà, seguitare a vivere.
L'influenza della cultura figurativa greca si fa sentire lungo quasi tutta la parabola dell'etrusca. Ma è un'influenza dall'esterno, formalistica: un'arte come la greca, espressione assoluta e totale della vita, non poteva agire profondamente su un'arte ossessionata, come l'etrusca, dal pensiero e dal timore della morte. Né un'arte siffatta, tutta rivolta a scongiurare la morte o a strapparle la sua preda, poteva avere uno sviluppo consapevole e orientato, profondamente collegato con la vita storica, con i grandi valori religiosi o civili. Un'arte che voglia essere anzitutto protezione e scongiuro contro la morte non è tanto religiosa quanto superstiziosa; e poiché la superstizione è credenza incolta e popolare, l'arte etrusca non si spoglia mai completamente d'un certo carattere popolaresco. Non è, cioè, un'arte che sbocci al vertice di una cultura, come la classica: nasce dalla vita pratica, quotidiana, da quella vita appunto che si vive con la paura della morte a cui è come contesa e strappata, giorno per giorno. Per la medesima ragione l'arte etrusca è fondamentalmente realistica; anzi è proprio per l'arte etrusca che può impiegarsi, per la prima volta, questo termine. È realistica perché ciò che si vuole strappare alla morte è la realtà materiale dell'esistenza o almeno una sua traccia: perché, insomma, mediante l'arte la realtà seguita ad essere pur nel terrificante dominio del non-reale e del non-essere. Ciò spiega perché l'arte etrusca, pure attingendo largamente alle forme dell'arte greca come si attinge a un repertorio di forme, sia fondamentalmente anti-classica; sia, anzi, la fonte prima della corrente anti-classica che si svilupperà largamente nell'arte romana, si inoltrerà nel medioevo e oltre, diverrà quasi una costante o ricorrente antitesi all'altrettanto costante e ricorrente tesi dell'" idealismo" classico.
L'architettura etrusca
Nella civiltà etrusca il tempio non ha una grande importanza: questo popolo di costruttori, che ha eretto mura e fortificazioni capaci di resistere ai secoli, faceva i suoi templi di legno e di argilla, sicché non rimane che ricostruirne vagamente l'immagine dal trattato di Vitruvio e dalle urne fittili a forma di tempio.
Costruito su un alto basamento, con tozze e basse colonne, il tempio etrusco evocava lontanamente le forme di quello dorico; ma era più largo che lungo e risultava diviso in due parti, delle quali l'anteriore era aperta e porticata, mentre l'altra conteneva una triplice cella. Le colonne "tuscaniche" non avevano scanalature e il capitello era costituito da un anello (echìno) fortemente compresso. A questa semplice struttura si sovrapponeva un'abbondante decorazione fittile vivacemente colorata: antefisse con rilievi figurati mascheravano e proteggevano le testate delle travi di legno; acrotèri, inizialmente soltanto ornati con semplici motivi e poi sempre più complessi fino a diventare statue e gruppi statuari, sorgevano sul tetto a spioventi.
Nelle mura e nelle porte di città si rivela il genio costruttivo degli etruschi, maestri nell'intagliare e comporre ad incastro la tenera pietra locale: sul principio dell'incastro e del reciproco sostegno dei blocchi si fonda il sistema della copertura ad arco e a volta che costituisce, nell'ordine della tecnica costruttiva, il carattere saliente dell'architettura etrusca e diverrà, anche nell'ordine estetico, il tema-base dell'architettura romana.
Tra le mura e porte urbane etrusche sono specialmente da ricordare quelle di Perugia e di Volterra.
Le principali necropoli etrusche si trovano a Orvieto, Tarquinia, Chiusi, Cerveteri. Le tombe sono per lo più ipogee (sotterranee) e riconoscibili all'esterno da un tumulo conico di terra con l'anello di base di pietra; vi sono anche tombe rupestri (Sovana). Constano generalmente di vari vani, coperti con soffitto piano, o a spioventi, qualche volta a tholos; spesso le pareti sono coperte di figurazioni dipinte. Quando la statica lo richiede le coperture sono sostenute da pilastri fortemente squadrati: nella tomba dei rilievi dipinti, a Cerveteri, sulle facce dei pilastri sono applicati rilievi in terracotta vivacemente colorata con forme di animali, armi per la caccia etc.
La pittura etrusca
La pittura etrusca è il complemento dell'architettura delle tombe. La tecnica usata è una specie di affresco, con colori disciolti nell'acqua che vengono assorbiti dallo strato sottile dell'intonaco. Quanto ai temi, poiché lo scopo delle figurazioni
è quello di circondare il morto con le immagini della vita sostituendo lo spettacolo del mondo, prevalgono le scene di costume, con musicanti, danzatori, ginnasti, partite di caccia e di pesca. Non mancano tuttavia le figurazioni mitologiche, derivate dalla pittura vascolare greca o dovute ad artisti greci immigrati. Lo scopo delle figurazioni tombali spiega il loro realismo, che però si riduce all'accentuazione della mimica delle figure e all'intensificazione, che spesso diventa crudezza, dei colori. Si vuole rompere l'oscurità del sepolcro con le immagini della vita; si vuole che queste immagini siano vedute dai morti, la cui condizione è indeterminata, precaria, sospesa tra l'essere e il non-essere. La pittura deve stimolare il loro interesse, che tende ad affievolirsi, per le cose del mondo reale: deve parlare forte, come si parla ai sordi. La qualità artistica ha una importanza secondaria: è importante che le figure spicchino nette sul fondo, che i loro contorni siano fortemente segnati, che i loro gesti siano esagerati, che i colori siano rafforzati.
Nel V secolo si fa più sensibile l'influenza della pittura classica: le linee di contorno sono più sottili ma più costruttive della forma plastica, i colori sono meno aspri ma più variati, i movimenti delle figure più sciolti. Ma non muta lo spirito: nella finzione pittorica l'immagine deve sostituire una realtà perduta, anzi è questa la sola realtà che penetri nella sensibilità assopita di chi ha varcato l'orizzonte della vita.
Per questa sua funzione, per la sua stessa destinazione mortuaria e tombale, la pittura etrusca raramente tocca alti livelli qualitativi; è il prodotto di maestranze artigiane e, quando una personalità emerge (come nella tomba del Triclinio), non è per una più vasta, meditata, storicamente fondata visione del reale, ma per un'arguzia più pronta, per un popolaresco gusto dell'osservazione e della notazione vivace.
La scultura etrusca
Diverso è, almeno per l'importanza del risultato artistico, il problema della scultura; e, benché anch'esso rechi profonda l'impronta della concezione escatologica (o dell'aldilà) che abbiamo indicato, è per altri versi legato al mondo della tecnica e dell'industria, cioè al mondo reale della società etrusca.
Le funzioni della plastica, in quella società, sono molte e non tutte relative al culto dei morti: v'è una grande scultura decorativa, v'è la piccola plastica collegata all'arredamento della casa e all'ornamento della persona e v'è, naturalmente, la scultura funeraria dei canòpi (urne cinerarie col coperchio a forma di testa umana) e quella dei sarcofagi.
I canòpi della regione chiusina risalgono al secolo VII: il corpo del vaso evoca schematicamente il busto umano, i manici ricurvi le braccia, la testa sul coperchio è spesso caratterizzata come maschera o ritratto del defunto. Ve ne sono di terracotta e di metallo. La plastica, per piani semplificati e tratti fortemente incisi, è ancora quella della protostoria mediterranea.
Con il VI secolo comincia a farsi sentire l'influenza della scultura arcaica ionica. A VULCA, il solo artista etrusco arcaico di cui si conosca il nome, o alla sua cerchia immediata, appartiene la grande statua dell'Apollo di Veio, parte della decorazione esterna, in terracotta, di un tempio. È ionica l'impostazione della figura, in cui la massa, spianandosi in ampie superfici, si risolve nelle sottili, vibranti nervature luminose delle pieghe della veste; ma è diversa la modellazione, che espande la forma nello spazio per un contatto più crudo, quasi d'attrito, con la luce. Così nella Lupa Capitolina, in bronzo, l'influenza ionica è evidente nella modulazione finissima della luce sul corpo dell'animale e nella stilizzazione del pelo sul collo, ma è nuovo, e dovuto ad un'acuta lettura del vero, il modo con cui è accennata la tensione dei muscoli sotto la pelle. Poco dopo (V secolo) la Chimera d'Arezzo, uno dei massimi capolavori dell'antica arte del bronzo, intensifica i motivi della stilizzazione ionica fino a rovesciarne il significato, a tradurli in fattori di concisione e tensione espressiva. Il corpo inarcato, la coda-serpente flessa come una molla, contraggono la forma nello spazio; la materia dura e brillante diventa la sostanza viva dell'immagine; vene affioranti, tendini, muscoli, perfino le ciocche della criniera, più che descrivere l'anatomia del corpo, fanno scorrere nel bronzo correnti di energia vitale.
I sarcofagi, per lo più in terracotta, sono la creazione più originale della scultura etrusca. Il coperchio della cassa ha la forma del letto per il simposio: su di esso, appoggiandosi sul gomito, è il defunto, e spesso gli è accanto la moglie. Le figure, specialmente nei volti, sono acutamente caratterizzate, con una fedeltà ritrattistica che va facendosi, col tempo, sempre più insistente, quasi indiscreta. Le deformità fisiche, i segni dell'infermità, della vecchiaia, del vizio sono descritti senz'ombra di pietà ma, anche, senza il compiaciuto gusto del pittoresco che increspa il verismo ellenistico della vecchia ubriaca. A partire dal IV secolo, il rapporto tra l'arte etrusca e l'ellenistica è storicamente provato dai temi e dallo stile dei rilievi frontali dei sarcofagi stessi; ma è un'esigenza ben più profonda che determina il realismo tutt'altro che superficiale e descrittivo della ritrattistica funeraria etrusca. L'antica volontà di appesantire l'immagine, di darle corpo e materia reali diventa più ansiosa, si complica. La persona che viene rappresentata vivente, nell'atto di banchettare, è morta: quella che vediamo è un'immagine a cui non corrisponde più una cosa o persona reale. L'etrusco, industriale o mercante che ha il senso concreto della vita pratica, si smarrisce davanti al vuoto della morte. Cerca di riempirlo con le immagini, le vuote forme di sé, delle cose del mondo; ma le medesime forme che si muovono e vivono nel contesto di relazioni infinite di cui è fatto il mondo, rimangono immobili e immutabili nello spazio vuoto dell'aldilà. Tutto è veduto dal punto di vista del morto, in una prospettiva rovesciata, con una "passione per la vita" che non può più essere soddisfatta e che non ammette scelte: non v'è più il bello e il brutto, il buono e il cattivo, tutto è egualmente pieno di significato. Le tare, i mali, le deformità sono pur sempre indizi di vita, segni concreti dell'esistere: oggetti di rimpianto, perfino, per colui su cui sovrasta l'insopportabile minaccia di non essere più.
Non basta che l'immagine finga la persona viva: nell'immagine non batterà mai un cuore, non circolerà il sangue. Della persona si avrà la forma, non la struttura. Ma l'immagine cesserà di essere finzione, avrà una propria e sia pur diversa realtà, se avrà una propria struttura: sarà questa a seguitare la vita della persona, a far sì che l'immagine sia qualcosa di assoluto e non di relativo a una realtà non più esistente. Con quel suo pancione, quel suo collo corto sotto il volto asfittico, e tutta quella sua carne molle e pesante, l'obesus etruscus è al di là delle categorie del bello e del brutto, che tanto preoccupavano gli scultori alessandrini. Il grande volume del ventre rilassato lievita nella luce con la sua curvatura continua, cui pone un fermo brusco il solco d'ombra nel materasso pigiato. Una grinza della pelle, una piega, un nervo che guizza bastano a mettere in movimento, a dare un'illusione di vita a quella massa inerte. Ma questi accenti rapidi e acuti vengono tuttavia dalla persona: sono quanto di vivo trapassa nella materia inerte e ne fa forma viva.
La ritrattistica etrusca è la prima ritrattistica non celebrativa, commemorativa, interpretativa: perciò può dirsi veramente realistica. Non v'è ricerca psicologica, non v'è giudizio in questi ritratti: qualità e difetti sono ridotti al minimo comun denominatore dell'indizio vitale, della prova dell'esistere. Perciò l'arte etrusca, malgrado i suoi rapporti col classicismo, è nettamente anti-classica: per l'arte classica le sembianze mutano e la sostanza resta, per l'etrusca la sostanza non esiste più, le sembianze diventano sostanziali. Lo si vede in uno dei capolavori più tardi, la statua bronzea dell'arringatore: d'una dignità già romana, ma con tutta l'ansia e la malinconia dell'inoltrata cultura etrusca. Il corpo è leggermente proteso in avanti, le pieghe della toga sfuggono nella direzione opposta, come la figura fosse attirata all'indietro da una forza misteriosa; e già stesse per scomparire, con quello sguardo e quel gesto che sembrano di congedo più che di esortazione, nella buia regione del nulla. Della "passione per la vita" , del senso concreto del valore delle cose sono documenti le forme piene di animazione che gli etruschi hanno dato alle suppellettili delle loro case, agli ornamenti delle loro persone: creando una ceramica d'alto livello, una oreficeria raffinata, preziosi arredi metallici, piccole sculture bronzee etc. Forse proprio nella civiltà etrusca l'arte è stata concepita per la prima volta come momento supremo, metafisico, della tecnica o del lavoro umano.
La Magna Grecia
Le sole regioni italiane che abbiano conosciuto la grande stagione classica sono quelle del meridione e della Sicilia. Tutte le antiche città calabre (Taranto, Locri, Sibari, Crotone, Reggio etc.) e sicule (Siracusa, Agrigento, Segesta, Gela etc.) sono i prodotti della colonizzazione greca, incominciata nell'VIII secolo: l'arte che vi fiorisce è arte greca, i complessi monumentali di Pesto, Selinunte, Agrigento sono i più importanti tra quanti ne rimangono del mondo greco. Quasi nessuna importanza hanno, nella cultura artistica della Magna Grecia, le deboli sopravvivenze protostoriche in taluni aspetti del culto e del rito o le tenui inflessioni dettate dal gusto locale. I soli caratteri distintivi sono: una certa irregolarità nella ripetizione delle proporzioni originali e una certa mescolanza di motivi, dovuti anche al fatto che gli architetti e gli scultori greci operosi nella Magna Grecia provenivano da regioni e da tradizioni figurative diverse; una certa esuberanza negli apparati decorativi, spesso di terracotta colorata; una qualche mollezza nel modellato architettonico e scultorio, dovuta essenzialmente all'impiego di un calcare tenero, poroso, dorato.
L'arte etrusca
Del popolo etrusco, che da principio si insediò lungo la costa e il retroterra tirrenico, tra il corso dell'Arno e quello del Tevere, è incerta la provenienza; né
molto si sa, malgrado l'abbondanza dei documenti e il progresso degli studi relativi, circa la loro lingua, la religione, il costume.
Le prime manifestazioni culturali risalgono alla fine del IX, e al principio dell'VIII secolo; nel II secolo il ciclo della civiltà etrusca si chiude dopo avere compreso nel proprio ambito la pianura padana (con la città di Spina presso Ferrara) al nord e la costa tirrenica fino alla Campania, a sud. Roma stessa, fino al I secolo a.C., è sotto la diretta influenza della cultura etrusca.
Era, l'etrusco, un popolo industrioso, che sapeva sfruttare i ricchi giacimenti metalliferi, la fertilità del suolo, la posizione geografica propizia ai traffici marittimi con tutti i paesi mediterranei. La sua civiltà era essenzialmente urbana: le città generalmente protette da forti cinte murarie, si succedevano a
brevi distanze lungo le vallate del Tevere e dell'Arno: Arezzo, Cortona, Chiusi, Perugia e, appartate, le due più ricche e potenti, Cerveteri e Tarquinia. La società era chiusa e conservatrice, gelosa delle proprie tradizioni e costumanze. Aveva un profondo, oscuro sentimento del sacro: a lungo ha conservato culti arcaici, della protostoria italica. La composizione del suo Olimpo è tuttora imprecisamente nota: ciò che fa sospettare, scrive M. Pallottino, "la credenza originaria di una certa entità divina, dominante nel mondo attraverso manifestazioni occasionali e molteplici che si concretano in divinità, gruppi di divinità, spiriti" . Regnava sul mondo una sorta di Fortuna, forza misteriosa che veniva evocata o scongiurata con pratiche divinatorie (ars aruspicina). Proprio il senso concreto, positivo, pratico della vita rende più misteriosa e paurosa la dimensione della morte. Incombente e terrifica era la visione dell'aldilà, gremito di geni infernali: bisognava dunque contrastare, annullare gli effetti della morte, conservare al di là di essa le sembianze, i modi, la sostanza stessa della vita. Tutta l'arte etrusca è destinata alla tomba, ma partendo dall'idea che nella tomba si deve conservare qualcosa della vita reale, anche fisica. Se si passa dalla sepoltura per inumazione all'incinerazione, è ancora per impedire il disfacimento totale: le ceneri sono, comunque, qualcosa di reale, che non può più corrompersi e si conserva per sempre. Quanto alla tomba, al ricetto del morto, può essere casa o immagine della casa oppure del corpo umano stesso: l'importante è che, attraverso la tomba o l'urna, la persona possa in qualche modo reintegrarsi alla realtà, seguitare a vivere.
L'influenza della cultura figurativa greca si fa sentire lungo quasi tutta la parabola dell'etrusca. Ma è un'influenza dall'esterno, formalistica: un'arte come la greca, espressione assoluta e totale della vita, non poteva agire profondamente su un'arte ossessionata, come l'etrusca, dal pensiero e dal timore della morte. Né un'arte siffatta, tutta rivolta a scongiurare la morte o a strapparle la sua preda, poteva avere uno sviluppo consapevole e orientato, profondamente collegato con la vita storica, con i grandi valori religiosi o civili. Un'arte che voglia essere anzitutto protezione e scongiuro contro la morte non è tanto religiosa quanto superstiziosa; e poiché la superstizione è credenza incolta e popolare, l'arte etrusca non si spoglia mai completamente d'un certo carattere popolaresco. Non è, cioè, un'arte che sbocci al vertice di una cultura, come la classica: nasce dalla vita pratica, quotidiana, da quella vita appunto che si vive con la paura della morte a cui è come contesa e strappata, giorno per giorno. Per la medesima ragione l'arte etrusca è fondamentalmente realistica; anzi è proprio per l'arte etrusca che può impiegarsi, per la prima volta, questo termine. È realistica perché ciò che si vuole strappare alla morte è la realtà materiale dell'esistenza o almeno una sua traccia: perché, insomma, mediante l'arte la realtà seguita ad essere pur nel terrificante dominio del non-reale e del non-essere. Ciò spiega perché l'arte etrusca, pure attingendo largamente alle forme dell'arte greca come si attinge a un repertorio di forme, sia fondamentalmente anti-classica; sia, anzi, la fonte prima della corrente anti-classica che si svilupperà largamente nell'arte romana, si inoltrerà nel medioevo e oltre, diverrà quasi una costante o ricorrente antitesi all'altrettanto costante e ricorrente tesi dell'" idealismo" classico.
L'architettura etrusca
Nella civiltà etrusca il tempio non ha una grande importanza: questo popolo di costruttori, che ha eretto mura e fortificazioni capaci di resistere ai secoli, faceva i suoi templi di legno e di argilla, sicché non rimane che ricostruirne vagamente l'immagine dal trattato di Vitruvio e dalle urne fittili a forma di tempio.
Costruito su un alto basamento, con tozze e basse colonne, il tempio etrusco evocava lontanamente le forme di quello dorico; ma era più largo che lungo e risultava diviso in due parti, delle quali l'anteriore era aperta e porticata, mentre l'altra conteneva una triplice cella. Le colonne "tuscaniche" non avevano scanalature e il capitello era costituito da un anello (echìno) fortemente compresso. A questa semplice struttura si sovrapponeva un'abbondante decorazione fittile vivacemente colorata: antefisse con rilievi figurati mascheravano e proteggevano le testate delle travi di legno; acrotèri, inizialmente soltanto ornati con semplici motivi e poi sempre più complessi fino a diventare statue e gruppi statuari, sorgevano sul tetto a spioventi.
Nelle mura e nelle porte di città si rivela il genio costruttivo degli etruschi, maestri nell'intagliare e comporre ad incastro la tenera pietra locale: sul principio dell'incastro e del reciproco sostegno dei blocchi si fonda il sistema della copertura ad arco e a volta che costituisce, nell'ordine della tecnica costruttiva, il carattere saliente dell'architettura etrusca e diverrà, anche nell'ordine estetico, il tema-base dell'architettura romana.
Tra le mura e porte urbane etrusche sono specialmente da ricordare quelle di Perugia e di Volterra.
Le principali necropoli etrusche si trovano a Orvieto, Tarquinia, Chiusi, Cerveteri. Le tombe sono per lo più ipogee (sotterranee) e riconoscibili all'esterno da un tumulo conico di terra con l'anello di base di pietra; vi sono anche tombe rupestri (Sovana). Constano generalmente di vari vani, coperti con soffitto piano, o a spioventi, qualche volta a tholos; spesso le pareti sono coperte di figurazioni dipinte. Quando la statica lo richiede le coperture sono sostenute da pilastri fortemente squadrati: nella tomba dei rilievi dipinti, a Cerveteri, sulle facce dei pilastri sono applicati rilievi in terracotta vivacemente colorata con forme di animali, armi per la caccia etc.
La pittura etrusca
La pittura etrusca è il complemento dell'architettura delle tombe. La tecnica usata è una specie di affresco, con colori disciolti nell'acqua che vengono assorbiti dallo strato sottile dell'intonaco. Quanto ai temi, poiché lo scopo delle figurazioni
è quello di circondare il morto con le immagini della vita sostituendo lo spettacolo del mondo, prevalgono le scene di costume, con musicanti, danzatori, ginnasti, partite di caccia e di pesca. Non mancano tuttavia le figurazioni mitologiche, derivate dalla pittura vascolare greca o dovute ad artisti greci immigrati. Lo scopo delle figurazioni tombali spiega il loro realismo, che però si riduce all'accentuazione della mimica delle figure e all'intensificazione, che spesso diventa crudezza, dei colori. Si vuole rompere l'oscurità del sepolcro con le immagini della vita; si vuole che queste immagini siano vedute dai morti, la cui condizione è indeterminata, precaria, sospesa tra l'essere e il non-essere. La pittura deve stimolare il loro interesse, che tende ad affievolirsi, per le cose del mondo reale: deve parlare forte, come si parla ai sordi. La qualità artistica ha una importanza secondaria: è importante che le figure spicchino nette sul fondo, che i loro contorni siano fortemente segnati, che i loro gesti siano esagerati, che i colori siano rafforzati.
Nel V secolo si fa più sensibile l'influenza della pittura classica: le linee di contorno sono più sottili ma più costruttive della forma plastica, i colori sono meno aspri ma più variati, i movimenti delle figure più sciolti. Ma non muta lo spirito: nella finzione pittorica l'immagine deve sostituire una realtà perduta, anzi è questa la sola realtà che penetri nella sensibilità assopita di chi ha varcato l'orizzonte della vita.
Per questa sua funzione, per la sua stessa destinazione mortuaria e tombale, la pittura etrusca raramente tocca alti livelli qualitativi; è il prodotto di maestranze artigiane e, quando una personalità emerge (come nella tomba del Triclinio), non è per una più vasta, meditata, storicamente fondata visione del reale, ma per un'arguzia più pronta, per un popolaresco gusto dell'osservazione e della notazione vivace.
La scultura etrusca
Diverso è, almeno per l'importanza del risultato artistico, il problema della scultura; e, benché anch'esso rechi profonda l'impronta della concezione escatologica (o dell'aldilà) che abbiamo indicato, è per altri versi legato al mondo della tecnica e dell'industria, cioè al mondo reale della società etrusca.
Le funzioni della plastica, in quella società, sono molte e non tutte relative al culto dei morti: v'è una grande scultura decorativa, v'è la piccola plastica collegata all'arredamento della casa e all'ornamento della persona e v'è, naturalmente, la scultura funeraria dei canòpi (urne cinerarie col coperchio a forma di testa umana) e quella dei sarcofagi.
I canòpi della regione chiusina risalgono al secolo VII: il corpo del vaso evoca schematicamente il busto umano, i manici ricurvi le braccia, la testa sul coperchio è spesso caratterizzata come maschera o ritratto del defunto. Ve ne sono di terracotta e di metallo. La plastica, per piani semplificati e tratti fortemente incisi, è ancora quella della protostoria mediterranea.
Con il VI secolo comincia a farsi sentire l'influenza della scultura arcaica ionica. A VULCA, il solo artista etrusco arcaico di cui si conosca il nome, o alla sua cerchia immediata, appartiene la grande statua dell'Apollo di Veio, parte della decorazione esterna, in terracotta, di un tempio. È ionica l'impostazione della figura, in cui la massa, spianandosi in ampie superfici, si risolve nelle sottili, vibranti nervature luminose delle pieghe della veste; ma è diversa la modellazione, che espande la forma nello spazio per un contatto più crudo, quasi d'attrito, con la luce. Così nella Lupa Capitolina, in bronzo, l'influenza ionica è evidente nella modulazione finissima della luce sul corpo dell'animale e nella stilizzazione del pelo sul collo, ma è nuovo, e dovuto ad un'acuta lettura del vero, il modo con cui è accennata la tensione dei muscoli sotto la pelle. Poco dopo (V secolo) la Chimera d'Arezzo, uno dei massimi capolavori dell'antica arte del bronzo, intensifica i motivi della stilizzazione ionica fino a rovesciarne il significato, a tradurli in fattori di concisione e tensione espressiva. Il corpo inarcato, la coda-serpente flessa come una molla, contraggono la forma nello spazio; la materia dura e brillante diventa la sostanza viva dell'immagine; vene affioranti, tendini, muscoli, perfino le ciocche della criniera, più che descrivere l'anatomia del corpo, fanno scorrere nel bronzo correnti di energia vitale.
I sarcofagi, per lo più in terracotta, sono la creazione più originale della scultura etrusca. Il coperchio della cassa ha la forma del letto per il simposio: su di esso, appoggiandosi sul gomito, è il defunto, e spesso gli è accanto la moglie. Le figure, specialmente nei volti, sono acutamente caratterizzate, con una fedeltà ritrattistica che va facendosi, col tempo, sempre più insistente, quasi indiscreta. Le deformità fisiche, i segni dell'infermità, della vecchiaia, del vizio sono descritti senz'ombra di pietà ma, anche, senza il compiaciuto gusto del pittoresco che increspa il verismo ellenistico della vecchia ubriaca. A partire dal IV secolo, il rapporto tra l'arte etrusca e l'ellenistica è storicamente provato dai temi e dallo stile dei rilievi frontali dei sarcofagi stessi; ma è un'esigenza ben più profonda che determina il realismo tutt'altro che superficiale e descrittivo della ritrattistica funeraria etrusca. L'antica volontà di appesantire l'immagine, di darle corpo e materia reali diventa più ansiosa, si complica. La persona che viene rappresentata vivente, nell'atto di banchettare, è morta: quella che vediamo è un'immagine a cui non corrisponde più una cosa o persona reale. L'etrusco, industriale o mercante che ha il senso concreto della vita pratica, si smarrisce davanti al vuoto della morte. Cerca di riempirlo con le immagini, le vuote forme di sé, delle cose del mondo; ma le medesime forme che si muovono e vivono nel contesto di relazioni infinite di cui è fatto il mondo, rimangono immobili e immutabili nello spazio vuoto dell'aldilà. Tutto è veduto dal punto di vista del morto, in una prospettiva rovesciata, con una "passione per la vita" che non può più essere soddisfatta e che non ammette scelte: non v'è più il bello e il brutto, il buono e il cattivo, tutto è egualmente pieno di significato. Le tare, i mali, le deformità sono pur sempre indizi di vita, segni concreti dell'esistere: oggetti di rimpianto, perfino, per colui su cui sovrasta l'insopportabile minaccia di non essere più.
Non basta che l'immagine finga la persona viva: nell'immagine non batterà mai un cuore, non circolerà il sangue. Della persona si avrà la forma, non la struttura. Ma l'immagine cesserà di essere finzione, avrà una propria e sia pur diversa realtà, se avrà una propria struttura: sarà questa a seguitare la vita della persona, a far sì che l'immagine sia qualcosa di assoluto e non di relativo a una realtà non più esistente. Con quel suo pancione, quel suo collo corto sotto il volto asfittico, e tutta quella sua carne molle e pesante, l'obesus etruscus è al di là delle categorie del bello e del brutto, che tanto preoccupavano gli scultori alessandrini. Il grande volume del ventre rilassato lievita nella luce con la sua curvatura continua, cui pone un fermo brusco il solco d'ombra nel materasso pigiato. Una grinza della pelle, una piega, un nervo che guizza bastano a mettere in movimento, a dare un'illusione di vita a quella massa inerte. Ma questi accenti rapidi e acuti vengono tuttavia dalla persona: sono quanto di vivo trapassa nella materia inerte e ne fa forma viva.
La ritrattistica etrusca è la prima ritrattistica non celebrativa, commemorativa, interpretativa: perciò può dirsi veramente realistica. Non v'è ricerca psicologica, non v'è giudizio in questi ritratti: qualità e difetti sono ridotti al minimo comun denominatore dell'indizio vitale, della prova dell'esistere. Perciò l'arte etrusca, malgrado i suoi rapporti col classicismo, è nettamente anti-classica: per l'arte classica le sembianze mutano e la sostanza resta, per l'etrusca la sostanza non esiste più, le sembianze diventano sostanziali. Lo si vede in uno dei capolavori più tardi, la statua bronzea dell'arringatore: d'una dignità già romana, ma con tutta l'ansia e la malinconia dell'inoltrata cultura etrusca. Il corpo è leggermente proteso in avanti, le pieghe della toga sfuggono nella direzione opposta, come la figura fosse attirata all'indietro da una forza misteriosa; e già stesse per scomparire, con quello sguardo e quel gesto che sembrano di congedo più che di esortazione, nella buia regione del nulla. Della "passione per la vita" , del senso concreto del valore delle cose sono documenti le forme piene di animazione che gli etruschi hanno dato alle suppellettili delle loro case, agli ornamenti delle loro persone: creando una ceramica d'alto livello, una oreficeria raffinata, preziosi arredi metallici, piccole sculture bronzee etc. Forse proprio nella civiltà etrusca l'arte è stata concepita per la prima volta come momento supremo, metafisico, della tecnica o del lavoro umano.
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