sabato 14 novembre 2009

L'arte greca

Nella penisola ellenica una nuova componente etnica progressivamente modifica e caratterizza la cultura della protostoria mediterranea. La crescente infiltrazione di genti provenienti dal nord (dori) determina, come contraccolpo, la migrazione dei popoli ellenici della costa occidentale verso l'oriente: l'Asia minore diverrà così il centro della cultura ionica, sempre pervasa da un caldo sentimento della natura e sensibile a tutte le modulazioni affettive, e perciò sottilmente antitetica al severo rigorismo formale, alla tendenza al simbolico e all'astratto propria della tradizione dorica. Questa domina il periodo detto del medioevo ellenico, tra il XII e il IX secolo: nella ceramica la conformazione dei vasi ha curvature tese e la decorazione, coloristicamente severa, è quasi matematica nel computo rigoroso degli intervalli tra i segni.
Con la combinazione delle due componenti, dorica e ionica, si è voluto spiegare il coesistere, nella grande arte greca, di un'astratta esigenza a priori di ordine, simmetria e proporzione, e di una sempre rinnovata, talvolta impetuosa e drammatica esperienza della vita. In realtà, dalla fase arcaica alla classica, e da questa al molteplice diramarsi delle correnti ellenistiche, lo sviluppo storico dell'arte è inseparabile da quello della cultura e della coscienza politica del popolo ellenico.
Fin dal suo primo configurarsi nel vasto ambito della civiltà mediterranea, la società greca si costituisce sul pensiero di un perfetto equilibrio tra umanità e natura: nulla è nella realtà che non si definisca o prenda forma nella coscienza umana. Aristotele spiegherà che il primo stadio della "politica" è la famiglia (oikìa), il secondo il villaggio (koinè), il terzo la città (pólis). Le stesse leggi dello stato hanno il loro fondamento nelle leggi naturali; e naturale è il fondamento della logica e della scienza, della morale e della religione. Ma non per questo la vita è equilibrio immobile, stasi; è, invece, aspirazione continua a una condizione ideale, di perfetta libertà "naturale" . Per questo ideale di libertà la Grecia combatterà lungamente contro l'impero persiano, ultima forma dell'oscuro dispotismo asiatico; e questa lotta storica non sarà che il seguito della mitica lotta di liberazione della coscienza dagli incombenti terrori del mondo preistorico e protostorico, con le sue minacciose potenze soprannaturali. Di questa continua lotta, mitica e storica, per la liberazione della coscienza e la limpida conoscenza del reale, l'arte figurativa è, più ancora che una testimonianza, un fattore essenziale: concepita come il più puro e perfetto dei fenomeni naturali, rivela nella chiarezza delle sue forme la forma ideale della natura, nella sua essenza universale che è al di là di ogni accidentale contingenza. In questo senso ha una funzione attiva o costruttiva: si accompagna al pensiero dei filosofi e al genio ispirato dei poeti nella ricerca di una verità che non è oltre ma dentro le cose e che non si raggiunge oltrepassando l'esperienza, ma approfondendola e chiarendola. Si spiega così anche quello che, ai nostri occhi, potrebbe parere un limite dell'arte classica: il suo porre come unico oggetto, o quasi, la figura umana. Essa infatti è considerata, tra tutte le forme naturali, la più vicina all'ideale, la più libera dalle contingenze accidentali: in essa si vede come la civiltà, interpretando i significati profondi della natura, ne idealizzi le forme.
Lo sviluppo storico dell'arte greca viene comunemente diviso in tre periodi: arcaico, dal VII alla fine del VI secolo; classico, fino alla metà del IV; ellenistico, fino alla metà del I. Questa periodizzazione schematica riflette la tradizionale concezione evoluzionistica, per cui il periodo classico dovrebbe considerarsi come momento di apogeo, preceduto da una fase di preparazione o di progresso, e seguito da una fase di declino o di dissolvimento. Questa tesi non è accettabile perché ogni situazione storica deve essere valutata nel proprio significato e non solo in rapporto ad altre; tuttavia la fase centrale, detta classica, ha prodotto opere di tanta altezza da poter essere assunte, dai posteri, come esempi di perfezione assoluta e da poter costituire perciò il fondamento di una teoria dell'arte, o estetica.
Con il termine classico, relativamente recente, i teorici del XVIII e XIX secolo hanno indicato, infatti, la perfezione della forma artistica, il suo carattere di universalità, l'eternità del suo valore. La forma artistica è data come assoluta e universale allorché implica ed esprime una concezione totale del mondo. Poiché la concezione del mondo che trova nell'arte la sua espressione totale è quella di anche quello che, ai nostri occhi, potrebbe parere un limite dell'arte classica: il suo porre come unico oggetto, o quasi, la figura umana. Essa infatti è considerata, tra tutte le forme naturali, la più vicina all'ideale, la più libera dalle contingenze accidentali: in essa si vede come la civiltà, interpretando i significati profondi della natura, ne idealizzi le forme.
Lo sviluppo storico dell'arte greca viene comunemente diviso in tre periodi: arcaico, dal VII alla fine del VI secolo; classico, fino alla metà del IV; ellenistico, fino alla metà del I. Questa periodizzazione schematica riflette la tradizionale concezione evoluzionistica, per cui il periodo classico dovrebbe considerarsi come momento di apogeo, preceduto da una fase di preparazione o di progresso, e seguito da una fase di declino o di dissolvimento. Questa tesi non è accettabile perché ogni situazione storica deve essere valutata nel proprio significato e non solo in rapporto ad altre; tuttavia la fase centrale, detta classica, ha prodotto opere di tanta altezza da poter essere assunte, dai posteri, come esempi di perfezione assoluta e da poter costituire perciò il fondamento di una teoria dell'arte, o estetica.
Con il termine classico, relativamente recente, i teorici del XVIII e XIX secolo hanno indicato, infatti, la perfezione della forma artistica, il suo carattere di universalità, l'eternità del suo valore. La forma artistica è data come assoluta e universale allorché implica ed esprime una concezione totale del mondo. Poiché la concezione del mondo che trova nell'arte la sua espressione totale è quella di un determinato momento della civiltà greca, l'universalità dell'arte classica non è una qualità soprastorica, ma si identifica con la sua storicità. Diremo dunque che in nessun altro periodo, forse, l'arte è stata così pienamente espressiva della realtà storica, nella sua complessità, come nel periodo detto classico dell'arte greca. È chiaro che l'arte classica non potrebbe essere pienamente espressiva della realtà storica se il suo sviluppo non si attuasse come sviluppo storico, cioè se l'operare dell'artista non presupponesse una lucida consapevolezza dell'esperienza del passato e della finalità a cui si mira. L'arte classica ha dunque il suo fondamento nel passato e mira al fine della perfezione assoluta. Perciò l'operare dell'artista appare sempre collegato con un interesse teorico, programmatico, che trova talvolta la sua espressione in canoni o leggi formali.
Il canone si riferisce, per l'architettura, alle relazioni metriche tra le parti e tra ogni parte ed il tutto; per la scultura, alle dimensioni relative delle parti della figura umana. Il canone tuttavia, non è una costante iconografica o un tipo d'immagine che venga ripetuto uniformemente, ma un sistema di proporzioni tra le parti e delle parti col tutto: in questo senso riflette la concezione ellenica della realtà come relazione armonica di parti e dell'esistenza individuale come relazione dell'uomo con la natura, la società, il divino. Il canone, infine, non limita la libertà dell'artista più che le regole metriche non limitino la libertà espressiva del poeta.
Dal concetto di classico va nettamente distinto il concetto di classicismo, che si applica ai periodi in cui l'arte classica è assunta a modello e imitata. Non soltanto, infatti, il classicismo, assumendo a modello l'arte del passato, implica la sfiducia nella capacità dell'arte di esprimere la realtà storica presente, ma, riducendo l'arte all'imitazione di modelli storici, annulla il valore di creatività che è proprio dell'arte classica.
Il tema o il contenuto fondamentale dell'arte classica è il mito: non per questo, però, essa può dirsi sacra o religiosa come sarà, per esempio, l'arte cristiana del medioevo. Le immagini degli dei e degli eroi greci non hanno lo scopo di istruire il fedele o di incitarlo alla devozione; e meno che mai si pongono come sacre in sé, come materializzazioni del divino. Il Kerényi ha spiegato che la religione greca non nasce come rivelazione, ma come lento formarsi del mito e cioè attraverso il racconto verbale o scritto o figurato delle antiche saghe sull'origine del mondo e le prime vicende del genere umano. Le rappresentazioni poetiche o plastiche non dipendono dunque da un sistema teologico e, meno che mai, da una concezione teocratica dell'ordine sociale; sono esse che, tramandando le antiche credenze e le loro varianti da popolo a popolo, danno al senso del divino e del sacro quella forma sensibile che è il mito. La religione stessa, dunque, non è più imposta dall'alto con l'autorità di un sovrano e di una casta sacerdotale, ma sale dal basso, come espressione di un ethos popolare. Essendo l'espressione stessa della polis non è una legge immutabile, ma ha un suo sviluppo storico. Dagli antichissimi miti protostorici, ctonii, che esprimevano il timore reverenziale degli umani davanti alle incontrollabili forze del cosmo, si passa ai miti olimpici, che esprimono la raggiunta armonia tra l'uomo e un'ormai amica natura. I nuovi dèi, che spesso vediamo raffigurati in lotta contro una precedente generazione divina fatta di giganti e di mostri (la Gorgone, le Furie, i Giganti, i Titani etc.), sono le immagini ideali di attività o virtù umane: la sapienza e la cultura (Atena), la poesia (Febo), la bellezza (Afrodite), l'abilità nei traffici (Ermes), il valore guerriero (Ares), l'autorità (Zeus); e una splendente legione di semidei, ninfe, eroi intesse una comunicazione continua tra il mondo degli immortali e quello dei mortali: null'altro che l'immortalità, infatti (cioè la libertà dalla morte, la sola negata agli uomini) è il privilegio della natura divina. Proprio perciò la divinità è un'umanità ideale, la forma assoluta di un'esistenza che, sulla terra, è limitata e relativa. L'atteggiamento degli uomini di fronte al divino è di ammirazione più che di devozione. Un altro grande studioso della mitologia greca, Walter Otto, scrive: "Questa religione è tanto naturale che la santità non può trovarvi luogo" . I greci non aspirano alla trascendenza, i loro dèi hanno un'esistenza simile a quella degli uomini e non sempre esemplare; ma felice perché non oscurata dal pensiero della morte inevitabile. Essi amano scendere sulla terra dal loro cielo, ch'era poi soltanto un monte: uomini privilegiati possono incontrarli nel bosco o alla fonte. Non v'era, in ciò, nulla di miracoloso. Il dio degli ebrei, per dare la vittoria al suo popolo, fermava il sole e spartiva le onde del mare; gli dèi dell'Olimpo, racconta Omero, soccorrevano i loro protetti rendendo le loro membra più agili, la loro corsa più veloce, la loro mente più pronta, cioè intensificando le loro qualità umane, portandole ad un grado "eroico" .
Se il divino non è che un "umano" perfetto, la vita senza la morte, l'arte manifesta il divino nella perfezione della forma umana; e la perfezione è appunto l'evidenza della legge dell'armonia (la proporzione) che assicura l'identità di essenza e sembianza. Nell'arte classica non v'è distinzione tra il bello di natura e il bello dell'arte; è l'arte che scopre e rivela, o piuttosto istituisce il bello di natura. Ogni volta che, nelle successive culture classiciste, si esalterà il bello naturale si alluderà ad una legge d'armonia naturale rivelata dall'arte classica.
Il principio dell'arte come mimesi o imitazione non contraddice al concetto dell'arte come invenzione del bello: mimesi non è la copia di ciò che l'artista vede, ma confronto e scelta di parti belle per giungere alla ricomposizione di un insieme bello, e cioè di una natura, non più empirica, ma ideale. Il possesso di una teoria, e quasi potrebbe dirsi di una scienza dell'arte, muta profondamente la posizione sociale dell'artista. Esso non è più, come in Asia o in Egitto, un servo che opera secondo gli ordini di un sovrano dispotico e secondo le regole di una rigida ritualità. È un cittadino che esercita una libera professione; il depositario di una cultura estetica e tecnica, di cui la società riconosce la necessità; l'interprete dei grandi valori ideali su cui quella società consapevolmente si fonda. Qualsiasi cittadino può ordinare allo scultore una statua, al pittore un quadro da "dedicare" e collocare in un luogo pubblico: i monumenti che sorgono nelle città greche non sono più la testimonianza visibile dell'autorità, ma della storia dello stato.


L'architettura

La città greca ha, all'origine, una struttura e una configurazione molto semplici. La città è dominata dall'altura dell'acropoli, sorta dapprima per esigenze difensive e come dimora principesca, e poi riservata quasi esclusivamente a santuari ed edifici rappresentativi. Il centro della vita civile, politica e commerciale è invece posto nell'agorà, in genere in pianura. Al disotto si stende liberamente la città bassa (ástu¨), dove risiedono artigiani, mercanti, contadini. Col tempo, i legami tra città alta e città bassa si fanno più stretti; la vita urbana diventa più complessa e differenziata e la città si presenta come un organismo articolato. Si moltiplicano così i tipi degli edifici (templi, teatri, scuole, palestre etc.), sempre collegati alla struttura organica della città e alle esigenze della vita comunitaria. L'ordine urbanistico era legato all'ordine politico: quando la popolazione superava un numero stabilito da leggi, una parte di essa andava a fondare una nuova città (colonia). Della città di Rodi, disegnata da Ippodamo di Mileto, il costruttore delle mura del Pireo ad Atene, così scrive lo pseudo-Aristide: "Nell'interno di Rodi non si vedeva una piccola casa a fianco di una grande; tutte le abitazioni erano di uguale altezza ed offrivano il medesimo ordine di architettura, di modo che l'intera città sembrava formare un solo edificio. Larghissime strade la traversavano in tutta la sua estensione. Esse erano tracciate con tant'arte, che da qualunque parte si volgesse lo sguardo l'interno presentava sempre una bella decorazione. Le mura, nel vasto recinto della città essendo frammezzate da torri di sorprendente altezza e bellezza, eccitavano in particolar modo l'ammirazione. Le alte loro sommità servivano di faro ai naviganti. Tale era la magnificenza di Rodi, che senza averla veduta non poteva l'immaginazione formarsene un'idea. Tutte le parti di questa immensa città, congiunte fra loro in bellissime proporzioni, componevano un insieme perfetto, a cui le mura sembravano far corona. Era la sola città che si potesse dire fortificata come una piazza di guerra ed ornata come un palazzo" .
I teorici neoclassici del Settecento vedevano nell'architettura greca l'immagine di una società ideale, fondata su leggi "naturali" e, anche per polemica contro la complessità strutturale e decorativa del Barocco, di quell'architettura celebravano soprattutto la semplicità, virtù naturale e razionale ad un tempo. Evitava l'imponenza delle grandi moli e cercava l'armonia delle proporzioni, commisurando le forme alla funzione statica, cioè il sostegno al peso e il pieno al vuoto, il volume dell'edificio allo spazio naturale. Il tempio greco, aggiungevano, discendeva dai primi templi lignei, costruiti dai pastori nei luoghi frequentati dagli dèi, come una casa preparata a riceverli; e ne conservava la memoria nelle dimensioni limitate, a misura umana, nella nitidezza degli incastri e degli intagli, precisi come fossero fatti nella pasta tenera e compatta del legno. Che cosa c'è di vero in questa concezione palesem ente influenzata dalle poetiche d'Arcadia e dalla teoria illuministica sull'origine naturale della società civile?
Più di quanto non si creda. Indubbiamente l'antica architettura greca è l'opposto dell'architettura gigantesca, massiccia, fastosamente adorna degli imperi asiatici. Ciò che domina è il proporzionato equilibrio di verticali e orizzontali, di pieni e di vuoti. Nel tempio egizio i sostegni sono altissimi, possenti pilastri molto ravvicinati: si vuole che la costruzione dia un'immagine di forza, sovrasti con la sua mole l'ambiente; nel tempio greco i sostegni sono colonne i cui diametri sono commisurati all'altezza e all'intervallo, e così manifestano visibilmente quella legge di misura e di equilibrio di forze che regge la natura. Davanti alle piramidi
egizie o alle rovine di Babilonia si pensa alle falangi di schiavi che hanno trascinato e sollevato gli enormi blocchi per il monumento del despota; il tempio greco è stato costruito dal popolo per dare una forma al sentimento del sacro di cui lo riempiva la contemplazione della natura. Non è più il luogo dove si celebrano sacrifici sanguinosi per incutere nel popolo il terrore del potere; è il luogo dove il popolo accorre, in liete processioni, nelle feste delle comunità. Di qui, anche, la nitida funzionalità della sua forma: il fulcro della costruzione non è la cella chiusa, dove si conservava il simulacro del dio, ma il porticato (peristilio) e lo spazio anteriore, dov'era collocata l'ara e dove si svolgevano i riti in cospetto dei fedeli adunati intorno.
Che il tempio greco derivi dalle più antiche costruzioni lignee non è provato soltanto dalle proporzioni e dalla struttura: sopravvivono, benché ridotti a memoria simbolica, l'alto basamento (stilòbate) di pietra, che isolava il piede delle colonne lignee dall'umidità del suolo, gli spioventi del tetto, le gronde, i gocciolatoi che impedivano l'infiltrazione dell'acqua piovana. Dove però meglio si manifesta l'origine dalla costruzione lignea è nell'elemento fondamentale del sistema statico, la colonna. Non è un elemento nuovo, perché già si trova nei palazzi cretesi. Ma nell'architettura greca la funzione portante determina la dimensione, le proporzioni, la forma plastica delle colonne e le larghezze degli intervalli.
Nel tipo originario, il tempio dorico, la colonna è rastremata, cioè va restringendosi verso l'alto affinché sia più evidente il punto dove la spinta si contrappone al peso dell'architrave; il fusto a tronco di cono è percorso in tutta la sua lunghezza da larghe scanalature che formano spigoli acuti, in modo che la graduazione del chiaroscuro sulla larga curvatura si rifranga nel ritmo chiaroscurale più frequente degli sgusci, intensificandosi lungo il filo tagliente e quasi trasparente degli spigoli; nella parte mediana, il fusto è leggermente rigonfio (èntasi) per dare l'illusione del reagire di una materia elastica al contrasto delle forze dall'alto e dal basso. La colonna dorica, priva di base, poggia direttamente sullo stilobate; in alto, termina con un anello schiacciato (echino), che simula il comprimersi della materia sotto il peso dell'architrave; l'àbaco è un basso parallelepipedo, che localizza, lungo l'architrave, i punti d'appoggio delle colonne. Al di sopra dell'architrave, liscio, è una fascia (fregio) su cui si alternano, con leggero risalto, tavolette figurate (mètope) e scanalate (triglifi). Sulle due fronti corte del tempio è un frontone triangolare, coi tre lati rafforzati da una cornice sporgente che accresce la profondità della parte incavata, occupata da figurazioni scolpite. Il rapporto tra la lunghezza della fronte e dei lati è generalmente, con lievi varianti, da uno a due.
La pianta del tempio è rettangolare. La cella (nàos) è preceduta da un vasto atrio a colonne (prònao). Talvolta le colonne sono soltanto su una delle fronti (tempio pròstilo) o su tutt'e due le fronti (anfipròstilo); altre volte si allineano sui quattro lati, tutt'intorno al naos (perìptero). Nel tempio periptero, lo spazio tra le file delle colonne e le pareti del naos serviva alle processioni degli offerenti.
Il tempio greco è una struttura volumetrica aperta; non separa con pareti continue uno spazio interno dall'esterno, ma si inserisce nello spazio naturale, atmosferico e luminoso, con la ripetizione ritmica delle sue forme plastiche e dei suoi intervalli proporzionali. Luce e atmosfera penetrano attraverso gli intercolunnii, ma vengono modulate e quasi filtrate dai grandi fusti scanalati delle colonne. Struttura e decorazione sono studiate per questa lenta filtrazione, questo sottile trascorrere della luce su tutte le parti; la materia l'assorbe, la condensa nel volume dell'edificio, la qualifica nei colori di cui, originariamente, era ricoperto.
Tanto ai fini della rappresentazione plastica dell'equilibrio statico quanto a quelli della filtrazione e modulazione della luce sono estremamente importanti la forma delle colonne, il rapporto tra colonne e intervalli, le proporzioni generali dell'edificio. Poiché la forma della costruzione riflette sempre un'interpretazione idealizzante dello spazio naturale, la stessa struttura fondamentale del tempio assume, in luoghi diversi, diversi caratteri. Non conosciamo i canoni o le teorie dell'antica Grecia se non attraverso il trattato d'architettura di Vitruvio, un architetto romano del I secolo a.C., che distingue le proporzioni in classi o ordini, secondo le regioni in cui furono maggiormente diffusi: dorico, ionico, corinzio. Lo stesso ordine dorico, da cui gli altri discendono, non è assolutamente costante.
Dagli esemplari più arcaici (lo Heraion di Olimpia e la basilica di Pesto: fine del VII, metà del VI secolo), in cui il ritmo delle colonne e delle pause è più grave e profondo, si passa a forme più snelle e affusolate, che dilatano il respiro dei vuoti, come nel tempio di Cerere a Pesto e di Afaia ad Egina (fine del VI, principio del V secolo), per tornare poi ad una più massiccia plasticità, che intenzionalmente ripete le cadenze severe della fase arcaica (tempio di Zeus a Olimpia, tempio di Posidone a Pesto, Heraion di Selinunte).
Nel tempio ionico, le forme sono più agili, i chiaroscuri più ariosi e sfumati, i contorni più elastici e sensibili, le decorazioni più finemente intagliate e più pittoriche. Lo si vede nella plastica delle colonne, il cui fusto affusolato non poggia direttamente sullo stilobate ma riceve scatto da una base formata da un anello convesso (toro) e da uno concavo (gola o tròchilo), che, come una molla compressa, spingono in alto il fusto. Questo è ancora scanalato, ma gli sgusci più stretti e profondi intensificano il chiaroscuro: tra sguscio e sguscio lo spigolo appiattito traccia una striscia di luce viva. Il capitello ionico ha due volute che, nella più delicata articolazione dell'organismo costruttivo, risolvono visivamente il contrasto delle forze nelle curve scattanti delle spirali lineari. La decorazione più fitta e minuta delle cornici modula in un chiaroscuro più vibrante il contrasto tra le cornici aggettanti e la cavità ombrosa dei frontoni.
Nel tempio corinzio compare un elemento nuovo, il plinto, un alto dado che solleva la base delle colonne dal piano dello stilobate. Già questa volontà di portare in alto la struttura indica che si tende a una sempre più libera apertura dell'edificio nella luce e nell'atmosfera: lo conferma la forma più esile delle colonne, l'accentuazione dell'elasticità dei contorni nell'èntasi, la forma dei capitelli a cesto, con foglie arricciate di acanto, la decorazione più mossa e naturalistica, la molteplicità delle varianti da edificio a edificio.
L'organismo spaziale del tempio greco, sollevato sull'alto stilobate e aperto alla luce, presuppone un ambiente vasto e luminoso, lo sfondo dell'orizzonte e del cielo: la scelta del sito, come spiega Vitruvio, è il primo atto dell'architetto. Ma non basta: il tempio sta allo spazio naturale come il cristallo alla pietra greggia; dello spazio naturale rende visibile la legge celata, la struttura geometrica. Non è
una cosa nello spazio, ma la cristallizzazione dello spazio empirico secondo precise leggi di simmetria. L'edificio non sottostà alle leggi della veduta "normale" : infatti l'artista le modifica mediante impercettibili correzioni ottiche che attenuano il digradare delle grandezze per effetto della luce e dell'ombra o dell'atmosfera. Si tratta, per lo più, di lievi varianti nella larghezza degli intercolunni, di rastremazioni più o meno accentuate: ma è quanto basta perché l'edificio non appaia più come relativo allo spazio naturale, ma come forma assoluta dello spazio.
I templi greci, come pure le statue che li ornavano, erano rivestiti da un sottilissimo intonaco policromo; probabilmente anche il colore valeva come correzione ottica degli effetti di luce, trasformando la relatività del chiaroscuro in precisa qualità cromatica.
Altro tipo di architettura aperta è quello del teatro, vasta cavità scoperta, semicircolare, ottenuta sfruttando le inclinazioni naturali del suolo. La forma a mezzo imbuto della gradinata, dove sedevano gli spettatori, è anche determinata dalle esigenze della visibilità e dell'acustica: nel grande teatro di Epidauro (IV secolo) perfino le parole pronunciate a bassa voce dagli attori in scena potevano essere distintamente udite anche dagli spettatori più lontani. Al centro dell'emiciclo era l'orchestra, circolare o semicircolare, per i movimenti del coro; subito dopo v'era il proscenio, dove si svolgeva l'azione drammatica sullo sfondo della scena, fondale architettonico fisso. Poiché lo spettacolo, rappresentazione agìta del mito, era all'origine collegato al rito religioso e veniva considerato essenziale per l'educazione dei cittadini, la forma aperta del teatro è, ad un tempo, in rapporto con lo spazio naturale, luogo ideale del mito, e con la vita della società o della polis: non soltanto geometrizza o riduce all'ordine razionale la realtà naturale (il declivio del colle), ma crea così lo spazio ideale per il ripetersi manifesto del mito in cospetto della comunità riunita. Poiché non molto diverso era il significato dei giochi ginnici, in cui si esaltavano le qualità naturali della persona umana educate con l'intelligenza e la volontà, simile a quella del teatro era la forma dello stadio e dell'ippodromo: sviluppate però, per ragioni funzionali, lungo un asse longitudinale, dando cioè all'insieme una forma allungata invece che semicircolare.
Altre forme di architettura aperta, originariamente dedicate alle esercitazioni atletiche e poi a più vaste funzioni culturali e di pubblica istruzione, erano quelle delle palestre e dei ginnasi: per lo più recinti scoperti, circondati da porticati a colonne.


La scultura arcaica

Scomparsi tutti i monumenti di una pittura che gli antichi scrittori celebravano come eccelsa, la scultura rimane la somma testimonianza della figuratività ellenica. E anche questa conosciamo soltanto da pochi originali, per lo più mutili e privi dell'antica policromia, e dalle numerose copie eseguite per i committenti romani, dopo la conquista.
Né l'eredità minoico-micenea né i rapporti, pur certi, con la statuaria egizia bastano a spiegare la fioritura quasi improvvisa della grande statuaria arcaica nell'area dorica (Peloponneso), ionica (Egeo, Asia Minore) e attica. Gli stessi greci spiegavano con la leggenda - la fuga del mitico DEDALO da Creta e il suo arrivo nell'Attica - il nascere di una scultura, le cui immagini non erano soltanto idoli o materializzazioni del divino in oggetti vagamente antropomorfi, ma rappresentazioni del divino in immagini che avevano l'apparenza della vita e del movimento. Corrisponde infatti al passaggio dal circolo chiuso della reggia micenea all'aperta socialità delle poleis il trapasso del sentimento del sacro dall'oggetto direttamente investito del potere divino all'intuizione del divino attraverso la rappresentazione delle forme naturali idealizzate. Poiché la figura umana è pensata essere la più eletta delle forme naturali e la più prossima alla perfezione ideale, essa è anche quella che compendia nell'armonia delle proprie forme l'infinita armonia del cosmo: perciò, più che una ripetizione della morfologia del corpo umano, la statua è l'espressione in figura umana della natura come un tutto e cioè, ancora, dello spazio. Lo conferma il procedimento tecnico generalmente seguito: lo scultore lavorava con scalpelli a punta, riducendo via via il blocco di marmo tutt'intorno alla figura ideale di cui andava ricercando i limiti e i contorni, quasi disegnandola nella materia. Procedendo dall'esterno, insomma, lo scultore non cercava tanto la superficie solida del corpo quanto il suo limite imponderabile con la luce e lo spazio: un limite, appunto, che definisse insieme lo spazio infinito e la forma umana in cui quasi simbolicamente si identificava. Può sorprendere che una materia tanto raffinata e preziosa fosse poi ricoperta di colore: ma una forma che si dia come universale, o come fenomeno assoluto che compendi in sé tutto il mondo dei fenomeni, non può prescindere dal colore e nella scultura, come nell'architettura, il colore sottrae la luce-forma alla variabilità o mutabilità della luce naturale.
La Hera di Samo, uno dei più antichi esemplari della grande statuaria greca, dimostra come questo processo tecnico non fosse un processo di traduzione in pietra di un'immagine concepita dalla mente, ma un processo stilistico, di determinazione o individuazione dell'immagine. Come nel tempio, forma ideale dello spazio, si passa dalla forma curva delle colonne, su cui la luce si gradua in infiniti passaggi, alla volumetria dell'insieme, che offre alla luce i suoi piani squadrati, così qui si passa dallo stelo cilindrico delle gambe avvolte nella veste pieghettata (chitoàne) al busto squadrato, idealmente chiuso in quattro piani ortogonali (frontale, tergale, laterali). Lo scultore non si è fermato a questa schematica identità di modulo geometrico tra la forma ideale dello spazio geometrico e quella della figura umana; ma non ha cercato, al di là di quel limite, di individuare e descrivere i particolari delle membra. Ha invece cercato di definire come la sostanza viva dello spazio, la luce, penetrasse in quella struttura geometrica fino a identificarsi con la materia del marmo. Ha solcato il lungo fusto cilindrico della veste con tante pieghe sottili, tutte uguali come le scanalature di una colonna, in modo da costringere la luce a non trascorrere, ma ad indugiare sulla superficie incurvata; e, in alto, ha dato al ritmo più largo delle pieghe del manto (himåation) un andamento sinuoso per suggerire le curve del braccio e del busto al di là di quei piani ideali. La Hera di Samo è opera ionica, e tipicamente ionico è questo intrecciarsi di un'attenta sensibilità alle variazioni e vibrazioni luminose, alla rigorosa geometria dei grandi volumi. Nel giovane nudo (kouros) di Milo, il passaggio da una squadratura ideale, che taglia la forma per piani frontali, ad una forma tornita e quasi cilindrica, che filtra e guida la luce entro la plastica 25
del corpo, è anche più evidente: come se la figura umana, data come forma perfetta, non potesse che risultare dalla combinazione e dalla sintesi dei due tipi fondamentali delle forme geometriche, quelle a facce piane (cubo, parallelepipedo, piramide) e quelle a superfici curve (sfera, cilindro, cono). Ma tra queste forme, appunto, intese come forme archetipe di tutta la realtà, è l'infinita varietà, la molteplicità illimitata degli eventi della vita: in scultura, tutte le possibili qualità e quantità della luce.
Nella scultura ionica molti e diversi sono i modi di qualificare plasticamente una superficie fissando il modo della sua reazione alla luce: le piegoline del chitone o i più radi solchi sinuosi dello himation della Hera, le treccioline dei capelli e il modellato disteso, offerto al trascorrere della luce, del kouros di Milo; la criniera cesellata, che forma un alone di luce intorno alla testa del leone di Mileto. Le stesse stilizzazioni (come le pieghe geometrizzate delle vesti, le chiome trattate come rigide treccioline accostate, con ondulazioni ritmiche, ripetute e uniformi) non sono che altrettanti modi di trattenere e impegnare, in frequenze più fitte o più rade, la luce sulla materia. La struttura e perfino lo schema d'immagine sono identici nelle statue di Kleobis e Biton (c. 610), scolpite da POLYMEDES, della corrente dorica. Se, riprendendo il paragone con l'architettura, il kouros di Milo è come un tempio in cui il fusto snello e affusolato della colonna domina con il suo slancio elastico tutto l'insieme, il kouros di Polymedes è come un tempio in cui il valore dominante sia quello dello squadrato volume dell'insieme e le colonne non siano che elementi di sostegno nel sistema volumetrico. Lo squadro della testa e del busto include nella propria architettura le curvature del torso, delle gambe, delle braccia; i passaggi chiaroscurali sono netti e concisi; le minime indicazioni anatomiche si riducono a pochi tratti graffiti per non turbare la compatta unità del volume. Analogamente, il leone di Corfù, paragonato a quello di Mileto, è una massa in tensione, rafforzata da vuoti profondi, senza mediazioni o trapassi tra i pieni, luminosi, ed i vuoti carichi d'ombra.
Appartiene alla terza corrente, attica, il kouros del capo Sunio, del principio del VI secolo; e potrebbe, a prima vista, parere il risultato di una somma delle due correnti, dorica e ionica. V'è invece un fatto nuovo: la figura umana non è più
pensata come la risultante armonica di due forme geometriche archetipe (piane e curve), ma come un terzo tipo di forma, autonoma, capace di sprigionare da sé una forza di moto, di prendere possesso dello spazio. In altri termini, se all'idea del puro essere-nello-spazio succede quella dell'esercitare una forza nello spazio, è necessario mettere in evidenza le sorgenti di questa forza, la struttura dinamica del corpo, i muscoli. Non si tratta, tuttavia, di una ricerca naturalistica ma, ancora, strutturale: ossa, muscoli, tendini sono considerati solo come linee o correnti di forza che, dall'interno, determinano le espansioni e le contrazioni, le sporgenze e le depressioni della massa.
Del kouros di Tenea (560 circa), chi l'analizzasse in rapporto alla conoscenza dell'anatomia umana direbbe che rivela una nozione ancora sommaria ma in qualche parte già avanzata della muscolatura. Invece il movimento della figura dipende molto più da un leggero spostamento dell'asse di simmetria che da un gioco di muscoli; le ginocchia sono i giunti di un congegno di forze; i muscoli dei polpacci, gli inguinali, i pettorali, sono altrettante spinte dall'interno che determinano sporgenze dove la luce batte più forte e vuoti dove l'ombra s'addensa più fonda. Si veda, per esempio, come la larga superficie del petto campeggi nella luce perché i fianchi, contratti, formano con le braccia leggermente flesse due profonde cavità d'ombra; e come i capelli, formando una massa compatta, spingano in avanti, quasi anticipando il movimento del corpo, il profilo acuto e proteso del volto. Il senso "eroico" di questa figura di giovane atleta non è espresso da un gesto corrispondente a un'azione precisa; ma da una forma che diventa forza e che si traduce nell'espressione di un sicuro e sereno dominio della figura umana sullo spazio naturale.
Nella kore di ANTENORE (530 circa) non v'è neppure anatomia, ma soltanto drappeggio. Come in tutto il gruppo delle korai dell'Acropoli di Atene, un sottile luminismo di origine ionica increspa tutte le superfici, variamente incanalando la luce nei rivoli fitti delle pieghe irraggiate in direzioni diverse, nei festoni dei lembi ricadenti dei pepli, nelle fini treccioline ondulate. Il moto o, piuttosto, la vita della figura è dunque interamente ottenuto con diverse qualificazioni delle superfici per una varia modulazione della luce, con il diverso orientamento e andamento dei risalti luminosi e dei solchi d'ombra, con il loro ritmo ora ascendente ora discendente. La figura, insomma, è uno schermo su cui si intensificano, animandosi, gli elementi che compongono lo spazio naturale: e proprio da ciò dipende il predominio della figura, il maggior prestigio o il maggior valore di bellezza che la figura scolpita, la statua, assume nei confronti di tutte le possibili sembianze naturali.
Questa concezione della centralità della figura umana rispetto allo spazio di natura corrisponde del resto all'evolvere della credenza religiosa, del mito. Indubbiamente la gravità dorica, con il taglio severo delle masse e la forza contenuta delle sue forme conserva ancora il senso d'oppressione della mitologia ctonia, ch'è appunto la mitologia delle preponderanti, invincibili forze cosmiche: come si vede nel frontone di Corfù, con la mostruosa figurazione della Gorgone tra le belve, o nelle mètope di Selinunte e di Pesto, o nelle figure frontonali di Eracle e Tifone ad Atene; mentre, nella corrente attica, il rapporto s'inverte e la figura umana, dandosi come suprema forma della natura e quindi come rappresentazione di sé e dello spazio, si pone veramente come pitagorica "misura di tutte le cose".
Nella stele del guerriero Aristion, firmata da ARISTOCLE (530 circa), l'esiguo spessore del rilievo contiene, anzi dilata il volume. Il vuoto è dato, nel fondo, come un piano liscio, in un'uniforme diffusione della luce. Mancando una profondità reale, la plasticità della figura è affidata all'andamento dei contorni, alla linea. Al livello più profondo, il braccio che regge la lancia è soltanto profilato sul fondo; i contorni tendono alla retta; l'asta rettilinea solca appena il fondo, divergendo leggermente dalle rette del bordo. Il torace, col suo volume espanso, è disegnato da una curva più accentuata, più marcata ancora è la curva del muscolo del braccio affiorante al primo piano. Benché tutta compresa nell'esiguo spessore della lastra marmorea, la figura è come inscritta tra le facce di un parallelepipedo: il fondo, i lati estremamente abbreviati nell'incavo dei bordi, un piano frontale immaginario suggerito dall'appiattirsi delle pieghe della manica sul braccio turgido, muscoloso. La plastica, tuttavia, non risulta soltanto dalla varia curvatura dei contorni: quanto più marcata è la curva, tanto più profondo è il
solco d'ombra che, scavandosi ai margini del volume, lo qualifica, per contrasto, come volume luminoso. La luce si condensa nei riccioli fitti dei capelli, scorre lungo il tratteggio ondulato della barba e, da questi punti di massima vibrazione, dilaga uniforme, come un velo, su tutti i piani della figura. Non occorrono effetti di scorcio o d'illusione visiva: la modulazione della luce nello spazio dà valore volumetrico anche ai minimi risalti. Le linee stesse sono filamenti luminosi o solchi d'ombra: non, dunque, una trascrizione grafica del volume, ma un fenomeno plastico e visivo di altrettanta evidenza. Non diversamente nella poesia, specialmente nella poesia greca, la parola vale contemporaneamente per il suono e per il significato, come fatto fonetico e fatto concettuale.
Che la forma plastica sia sempre concepita per uno spazio privilegiato, ideale, non naturale, è dimostrato dalla funzione che assume nell'architettura specialmente nei frontoni dei templi. La forma del tempio, come s'è veduto, risulta dall'equilibrio o dalla proporzione di verticali e orizzontali; al sommo, il frontone triangolare riassume e conclude, quasi stabilendone la media proporzionale nei suoi lati obliqui, i due grandi temi strutturali del peso (orizzontali) e del sostegno (verticali). La decorazione è formata da statue collocate nella breve cavità del frontone, tra il piano liscio del fondo e il piano ideale, d'affioramento, indicato dalle cornici sporgenti. È uno spazio ideale perché è al di sopra e al di là del pur equilibrato contrasto delle forze, oltre l'orizzonte naturale simbolicamente rappresentato dall'architrave e dal fregio. In questo spazio, che ha la dimensione dell'eterno, si compone un racconto i cui protagonisti sono statue; ed è proprio il racconto, spiega Kerényi, che forma la sostanza reale e concreta del mito. I miti che vengono figurativamente raccontati al sommo del tempio, nel frontone che evoca il profilo d'un monte che potrebbe essere l'Olimpo, e che sovrasta e compone il dissidio delle forze naturali, insistono tutti sullo stesso motivo: raccontano la vittoria dei miti dell'armonia naturale ed umana sui miti terrifici delle forze naturali, il trionfo degli dèi olimpici sui giganti ed i mostri delle saghe arcaiche, la nascita di una natura ormai distinta, nella chiarezza delle sue forme, dalla turbolenta confusione del caos primigenio. Rientra in questo ciclo ideale la decorazione dei due frontoni del tempio di Aphaia ad Egina (490 circa), che raffigurava le due fasi della lunga lotta dei greci contro Troia, avamposto del mondo asiatico: l'impresa leggendaria di Eracle contro Laomedonte e la guerra degli achei contro Priamo. Ritta nella parte più alta e mediana del frontone, la statua di Atena, nume tutelare della civiltà ellenica; ai due lati, in pose adatte all'inclinazione degli spioventi, figure isolate di combattenti, di feriti, di morenti. Se la composizione è condizionata dal triangolo ribassato del frontone, lo sviluppo plastico è condizionato dalla breve profondità del rincasso e dalla necessità di presentarsi frontalmente pur nella veduta dal basso. Lo scultore doveva comporre tra due piani paralleli e vicini: risolve perciò la plastica in un insieme di tracciati lineari orizzontali, verticali, obliqui, e la struttura delle singole figure in una combinazione di angoli di diversa apertura. Poiché il movimento delle figure deve contenersi in una spazialità ridotta, i gesti vengono tutti ricondotti al piano frontale o d'affioramento, dove la luce è piena e incontrastata. Per lo stesso motivo al centro, dove la luce è massima, la "teofania" della dea è frontale e senza gesto, mentre a destra e a sinistra, col restringersi dei lati del frontone e col diminuire della luce, le figure dei combattenti in azione sono inclinate, in ginocchio, coricate, in atteggiamenti di moto o di torsione. È dunque la forma proporzionale del frontone che determina la successione delle figure e, a un livello più profondo, il pathos del racconto: esattamente come nella tragedia, dove il racconto non perde, anzi acquista vigore dal fatto che i discorsi ed i gesti sono contenuti in preordinate misure, in metri obbligati, in tempi prefissi. Proprio perché il ritmo è dato a priori e non si può uscirne (perché esso stesso è l'essenza del compiersi degli eventi nello spazio e nel tempo), bisogna che ogni gesto o ogni frase abbiano, nel contesto, un senso concluso, definitivo, irrevocabile. Senza alcuna enfasi, come ubbidendo a un ordine supremo e immutabile, i gesti di lotta, di sofferenza, d'ira impotente si scandono nel breve spazio dei frontoni: e solo la logica di una ferrea causalità collega il gesto di colui che colpisce a quello del colpito, ma con un crescendo d'intensità che culmina proprio dove lo spazio si restringe e finalmente si annulla, nelle figure coricate dei morenti. Richiamandoci ancora alla tragedia, se le statue più arcaiche, dedaliche, possono paragonarsi alla fase iniziale della tragedia, quando v'era un unico attore, i frontoni di Egina si possono paragonare alla fase successiva, in cui vi sono più personaggi, ciascuno dei quali dichiara, in discorsi conclusi, la propria situazione tragica. Solo più tardi si avrà nella tragedia, come nella scultura, il contrasto diretto, il dialogo, il concitato incrociarsi delle frasi e dei gesti.


La scultura classica

Soltanto pochi decenni separano le sculture di Egina da quelle dei due frontoni del tempio di Zeus a Olimpia (465 circa). Il tema è ancora la lotta contro le immagini tenebrose delle antiche saghe: nel frontone orientale Zeus, ritto al centro, assiste alla gara di Enomao e Pelope; nell'occidentale, Febo assiste alla lotta dei Lapiti con i Centauri. L'ignoto, grandissimo MAESTRO DI OLIMPIA, in cui s'è perfino proposto di riconoscere Fidia giovane, concatena figure ed episodi nella stretta di un pathos crescente. Sono gli anni in cui s'inasprisce la lotta contro i persiani, i "barbari" ; né meraviglia che questa lotta per la libertà contro una forza soverchiante, oscuramente legata a concezioni remote e quasi protostoriche, rianimasse drammaticamente, nelle coscienze, il tema tradizionale del contrasto tra la chiara mitologia delle idee e la buia mitologia delle forze. Se ad Egina la composizione era ancora paratattica, o per giustapposizione di figure isolate, a Olimpia è sintattica o per combinazione di figure in gruppi formanti un unico insieme, quasi un nodo plastico. Là le figure erano collegate dal logico succedere dell'effetto alla causa; qui dalla risposta di un sentimento a un sentimento, di una reazione a un'azione, di un gesto umano a un gesto umano. La causalità non ha l'arbitrarietà del fato, è una legge razionale, superiore; ma è pur sempre una legge, al cui imperio non ci si può sottrarre. A un gesto umano si risponde con un gesto umano: anche se la causa prima rimane una volontà divina, gli impulsi all'agire si suscitano e si attuano nella sfera dell'umano. Ciò che conta non è più l'attuarsi di una legge, ma lo svolgersi nello spazio e nel tempo di un contrasto di sentimenti e di azioni. I gesti non sono mai, tranne che nelle figure divine, conclusi in se stessi; seguitano nell'altra o nelle altre figure del gruppo, si trasmettono da un gruppo all'altro come un'onda di movimento. Anche se la condizione spaziale è sempre quella determinata dal triangolo del frontone con il suo breve incasso che costringe le figure ad allinearsi contro il fondo, il loro annodarsi forma masse animate di luce a cui corrispondono, irregolari e drammatiche, pause scure di vuoto. La correlazione dei gesti delle figure è dialogica, c oncitata, per frasi brevi e taglienti, talvolta interrotte dalla replica immediata, come nella schermaglia delle sticomitìe tragiche. Ad Egina la figura centrale del dio era l'asse della composizione, qui è una cesura tra un'arsi e una tesi, un momento di sospensione al culmine dell'intensità drammatica, di stasi tra due ondate progredienti di moto.
Il racconto ha un suo tempo, ma è un tempo storico, non più l'eternità del divino. Sussiste una simmetria ai lati dell'alta figura centrale, ma è una simmetria di movimenti e non più di posizioni. E la simmetria non è più identità di valori corrispondenti, ma equivalenza di ritmi compositivi. Nella Centauromachia Febo, al centro, volge di scatto il capo ed alza il braccio destro, assegnando la vittoria ai Lapiti: il suo gesto si ripercuote nei gruppi, si trasmette fino all'estremità del frontone. Ma s'intuisce che lo stesso segnale è già stato dato nella direzione opposta, che nello sviluppo dei fatti ai due lati del dio v'è una pur minima diversità di tempi. Dunque l'artista non si accontenta più di "presentare" il fatto; vuole "rappresentarlo" , ricostruirlo nel suo svolgersi, farne la storia. La nuova dimensione temporale è, infatti, il tempo storico, e nel racconto storico non tutto può essere detto con lo stesso accento e la stessa forza: il racconto storico non è soltanto descrizione ma valutazione dei fatti. Se il fatto che si vuole accentuare è lo scatto di un braccio che ferisce o la contrazione d'ira e di spasimo del volto di un ferito, bisogna che tutto si ordini in funzione di quel tratto dominante. Il modellato è liscio, pacato, continuo; ma tutti i suoi piani convergono là dove nell'immobilità della forma s'accende la scintilla dell'evento: a una bocca appena contratta, a un'orbita impercettibilmente più fonda, alla misurata tensione di un braccio. Questo convergere di tutte le membra e perfino delle pieghe delle vesti nel punto culminante del gesto dà luogo a un ritmo ineguale, con accentuazioni e rallentamenti, salite e cadute. Si suole attribuire al Maestro di Olimpia l'invenzione dello scorcio; ma il suo modo di mettere le figure in scorcio non è, come sarà poi, un espediente illusivo per fingere che la figura stia in uno spazio 32
maggiore di quello che le è concesso. Le sue figure non sono poste o ridotte in scorcio; nascono in scorcio, né sarebbe possibile immaginarle prima o dopo, in riposo. Scorcio e movimento sono qui i modi di una più intensa e complessa strutturazione del fatto plastico: non sottintendono, dicono più concisamente. Nel movimento e nello scorcio la forma presenta alla luce piani diversamente orientati: distesi per riceverla in pieno, trasversi e sdruccioli per farla scorrere più rapida, tronchi per farla precipitare in una cavità piena d'ombra. La luce non si limita a rivelare; partecipa della composizione colpendo duramente le forme, immedesimandosi alle masse, ingorgandosi nelle depressioni, disperdendosi nelle ombre. La stessa cavità frontonale, che ad Egina situava le figure nella dimensione "catartica" della sua perfetta proporzionalità, è qui un fattore di concentrazione drammatica: le masse, quasi spinte in avanti, non affiorano più a un piano ideale ma si espongono alla luce viva, la captano, la impegnano nel loro movimento. In quello spazio le azioni umane assurgono al livello del divino o dell'eroico senza perdere nulla della propria drammaticità: come nella tragedia di Eschilo, dove la vicenda, dolorosamente umana e dominata dal fato, è tuttavia così altamente vissuta da coinvolgere l'umanità e la realtà tutta.
Parallelamente alla scultura marmorea della grande decorazione architettonica e muovendo da una tradizione anche più arcaica, si sviluppa la scultura in bronzo. Anche se collocata in un'architettura, la statua bronzea non si integra allo spazio architettonico: la qualità e il colore della materia, che non assorbe e diffonde ma riflette la luce, la isolano e, al tempo stesso, accrescono la sua forza di richiamo visivo. Poiché non si fonde ma spicca, la statua deve dominare lo spazio con l'intensità degli effetti di movimento e di luce. D'altra parte la perfezione raggiunta nella tecnica della fusione e la saldezza della materia permettono, specialmente nei moti delle braccia e delle gambe, una maggior libertà. V'è sempre un'esperienza stilistica che matura con l'esperienza tecnica, e questa porta, nel bronzo, a gettare in fuori la forma, a far presa sullo spazio. S'è veduto che lo scultore in marmo arriva alla forma dall'esterno, distruggendo via via la materia; il bronzista (e le due tecniche apparivano distinte, quasi come due generi) parte dalla massa informe della creta, la modella via via aggiungendo al nucleo iniziale, sviluppando la forma nello spazio. Anche questo processo dall'interno all'esterno tende ad accentuare i gesti, i movimenti: lo si vede dal fatto che a parità di data le figure bronzee sono, dal punto di vista dell'anatomia e della dinamica dei gesti, più caratterizzate che quelle di marmo. Anche per la sua principale funzione (la celebrazione statuaria degli atleti vincitori) la scultura bronzea tende all'esaltazione della figura isolata: elabora così, parallelamente alla poetica del racconto mitologico della scultura decorativa, una poetica dell'eroico. Se, dunque, per i frontoni di Egina e di Olimpia abbiamo potuto riferirci alle forme poetiche della tragedia, per i grandi bronzi del V secolo possiamo riferirci alle forme poetiche dell'inno o dell'ode. Diversa è anche, almeno nel periodo classico, la ricerca formale: la scultura marmorea ha generalmente piani larghi e modulati, ampie masse e superfici aperte all'assorbimento e alla diffusione della luce; la scultura bronzea ha generalmente un modellato nervoso e accidentato, capace di offrire infinite occasioni al mobile gioco dei riflessi.
Di NESIOTES e KRITIOS, tra i più celebrati bronzisti, conosciamo solo da copie le famose statue dei tirannicidi Armodio e Aristogitone, dedicate nel 477: figure audacemente protese in avanti, con le gambe a compasso come in un perfetto "a-fondo" e le braccia tese o levate nell'atto di colpire. Il movimento delle due figure è esatto, calcolato come in un congegno di leve: il gesto non è la concitata espressione di un sentimento d'ira o di sdegno, ma la risultante logica di un sistema di forze in atto. I muscoli, i tendini, le vene affioranti sono soltanto i conduttori di queste forze: i due eroi uccidono il tiranno con la stessa precisione ed economia di gesto con cui l'atleta, nello stadio, lancia il disco o l'asta. E i loro corpi sono duri ed asciutti, ridotti all'essenzialità del congegno, come quelli degli atleti.
Di un maestro non lontano da Kritios è il prezioso originale del Poseidon di Capo Artemisio (460 circa): è impostato anch'esso su un incrocio di diagonali, e le braccia aperte riprendono, sviluppano, estendono allo spazio l'impulso di moto che dalle gambe flesse si trasmette lungo la muscolatura tesa e affiorante del busto. Il tema dominante, come già in Kritios, è ormai quello del pondus, della gravitazione della figura su un punto d'appoggio, che è anche punto di partenza del movimento: non più l'equilibrio rigorosamente simmetrico dei kouroi arcaici, ma una compensazione a distanza, e spesso lungo le diagonali, del moto di una gamba con quello di un braccio, dell'inclinazione del busto con quella, opposta, del capo. La struttura anatomica dei corpi non è, in realtà, che un perfetto congegno di leve che trasmette a tutta la figura e, dalla figura, allo spazio l'iniziale impulso di moto: ma accrescendolo, estendendolo, irradiandolo in tutte le direzioni, disperdendolo nello spazio, infine, con gli infiniti raggi della luce riflessa dalla superficie. Non sempre, infatti, la presa di possesso dello spazio si compie attraverso l'evidenza dei moti delle membra. Era forse di bronzo l'originale della Afrodite Sosandra (465 circa), di KALAMIS: una figura tutta chiusa nel mantello, senza il minimo accenno all'anatomia del corpo. Ma la luce trascorrente sui piani inclinati della massa compatta e, di quando in quando, raccolta e vivamente riflessa sulle creste delle pieghe oblique e, finalmente, fluente nei profondi canali del lembo ricadente dal braccio basta a definire, nelle dosate quantità delle ombre e dei riflessi, la proporzione ideale della figura.
Un'altra figura chiusa, quasi senza gesto, è quella dell'Auriga di una quadriga bronzea, votiva, a Delfi, di SOTADES: la lunga veste fa del corpo una sola massa cilindrica, ma le fitte pieghe determinano, tra i solchi dell'ombra, striature luminose, riflessi irradianti in tutte le direzioni. La figura bronzea, scura, è così idealmente posta al centro dello spazio, quasi in un "luogo geometrico" dei raggi luminosi.
Tra i grandi bronzisti del V secolo emerge MIRONE DI ELEUTERE (470-440 circa). È opera sua il Discobolo, noto da varie copie: un esempio perfetto, fino al virtuosismo, di "ponderazione" . Tutta la figura, piegata in un grande elastico arco, poggia sulla gamba destra; alla sinistra, già sollevata nel balzo finale del lancio, fa riscontro il braccio che si congiunge al ginocchio destro. La figura traccia col suo moto due grandi curve: di cui una più stretta costituita dal femore destro e dal dorso, fa scattare l'altra più estesa delle due braccia. Ma i centri o i nodi del movimento, tutti portanti al braccio teso all'indietro col disco, sono distribuiti a diversi piani o livelli: le correnti di forza si sviluppano a spirale, con un duplice ritmo di concentrazione e di scatto, sicché la forza del gesto rimane immutata da qualsiasi punto si guardi la statua. Non solo, ma ogni veduta contiene in sé, in potenza, tutte le altre, come se la statua potesse essere veduta contemporaneamente da tutti i possibili punti di vista. Null'altro che questo potere di compendiare in ogni veduta particolare il totale consistere della forma nello spazio è il senso della nuova plasticità di Mirone. Fissato il principio della forma plastica come compendio o sintesi di tutti i possibili punti di vista, era logico che gli sviluppi della scultura in bronzo e di quella in marmo tendessero a convergere. La ricerca della forma assoluta o ideale si separa dalla ricerca tecnica, si pone come fine estetico da raggiungere sfruttando tutte le possibilità operative. POLICLETO DI ARGO, attivo nella seconda metà del V secolo, fissa un canone proporzionale, cioè il principio strutturale della figurazione statuaria; e lo fissa in una statua di atleta, il Doriforo. "Il delicato gioco di flessioni, che si era iniziato con l'Efebo di Kritios rompendo la rigida frontalità arcaica, si arricchisce nel Doriforo e nelle altre statue policletee in una sciolta e armonica articolazione ritmica, con chiastiche rispondenze nelle membra, con una sequenza di arsi e di tesi che i retori greci paragoneranno alla struttura di un periodo armonicamente costruito con quattro frasi giustapposte (koàla), cioè tetråakolos, chiamando cioè tetràgona, e i latini quadrata, i signa di Policleto. Una gamba si flette e arretra, la spalla opposta si abbassa, alla gamba piegata corrisponde il braccio flesso, alla portante quello abbassato, la testa si gira reclinata. Allo studio ritmico si univa quello delle proporzioni regolate su una misura-base che ne costituiva il cànone, fissato dall'artista in un trattato. Si codificava così, nel tempo stesso in cui il sofista Protagora proclamava nel suo trattato Della verità essere l'uomo la misura di tutte le cose, quel processo che fin dall'arcaismo aveva ricercato nell'immagine umana un'armonia universale" (G. Becatti).
Come principio strutturale il canone non ostacola l'invenzione artistica: ciò che viene dato a priori dal canone è soltanto il valore-base del rapporto tra una forma universale e lo spazio universale. Lo stesso Policleto ha applicato il canone quadrato in opere tra loro molto diverse, come il Doriforo, il Diadumeno, l'Amazzone: per dire soltanto delle più note attraverso le copie romane. In pratica
il canone policleteo risolve anche il problema della rappresentazione del movimento in una forma necessariamente statica e, più precisamente, della temporalità del movimento in una forma che abbia, con la qualità del bello, quella dell'eterno. Di solito le figure stanti policletee si presentano, rispetto all'asse mediano, con un lato portante, a piombo, e con l'altro animato da un accenno di moto: la statua è la sintesi, la soluzione in un'unica immagine, di questi due modi di essere-nello-spazio. Con termini moderni potremmo dire che l'immagine policletea riunisce i due valori dello essere e dell'esistere: dell'essere in uno spazio e in un tempo assoluti e dell'esistere in uno spazio e in un tempo reali. Così Policleto fissa un nuovo valore concettuale della statua: non come simulacro immoto né come veristica rappresentazione di un corpo in movimento, cioè non come immagine dell'eterno né come copia del contingente, ma come immagine della vita, intesa come realtà assoluta che s'invera e rivela nel fluire del tempo e negli atti degli uomini.
Policleto arriva fino al margine della teoria, dove l'opera d'arte vale anche come verità concettuale, manifestazione visibile del bello. Il suo contemporaneo FIDIA sente la realtà come un divenire, più che un essere, e poiché il divenire dell'umanità è la storia, riconduce nel grande flusso della storia l'arte che Policleto tendeva ad astrarre nella teoria. Nella sua opera il mito rivela la propria ricca, profonda sostanza storica: è la storia di un pensiero che, dall'antichità più remota, fluisce fino al presente e dà un significato e un valore non contingenti alla vita che si vive. E la vita è, in concreto, quella della polis, con le sue tradizioni, i suoi ideali religiosi e politici, la sua realtà in atto. Il nome di Fidia è legato a quello di Pericle, colui che realizzò l'unità ideale e politica dei popoli greci. Operò negli anni in cui quell'unità panellenica s'era saldata nella lotta contro il despotismo dell'impero persiano; e la nuova coscienza della più grande polis espresse con la stessa chiarezza con cui i poemi omerici avevano esaltato il primo riscatto ellenico dalla minaccia asiatica dell'antica Troia.
L'opera di Fidia è in gran parte connessa con la costruzione del Partenone, il tempio che Pericle volle erigere sull'Acropoli a simbolo della vittoria dell'unione e che, in certo senso, segna il passaggio dalle vecchie tradizioni religiose delle
singole comunità a quella che potremmo chiamare l'ideologia religiosa della Grecia unita.
Si cominciò a costruirlo nel 448, subito dopo la pace con la Persia, sui progetti di CALLICRATE e ICTINO; dieci anni più tardi si collocava nella cella la gigantesca statua di Atena, d'oro e d'avorio, opera di Fidia. Il grande tempio, di marmo pentelico, periptero, d'ordine dorico, sorge su un alto stilobate al sommo dell'Acropoli, visibile da ogni parte della città. Le fronti, con otto colonne, misurano più di trenta metri; i lati, con diciassette, circa s ettanta; le colonne, che superano i dieci metri di altezza, ne hanno quasi due di diametro alla base. La cella, con un vestibolo anteriore e uno posteriore, era divisa in tre navate da due file di colonne. La decorazione scultorea del tempio, concepita da Fidia e compiuta sotto la sua direzione da scultori provenienti da varie città greche, era così distribuita: nel frontone orientale, la nascita di Atena; nell'occidentale, la contesa tra Atena e Poseidon per il possesso dell'Attica (statue a tutto tondo incassate nella cavità frontonale); nelle novantadue mètope della trabeazione, la Gigantomachia (fronte est), l'Amazzonomachia (fronte ovest), la Centauromachia (lati nord e sud); nel fregio tutt'intorno alla parte superiore delle pareti esterne della cella, la processione delle Feste Panatenee.
1 Dopo Teodosio il Partenone fu trasformato in chiesa cristiana, dedicata alla Divina Sapienza (S. Sofia) e poi (XIII sec.) alla Madonna. Dopo la conquista turca (1456) fu adattato a moschea. Nel 1687, usato dai turchi come polveriera, fu colpito dai cannoni della flotta veneta e gravemente danneggiato dall'esplosione. Nel secolo scorso l'inglese Lord Elgin fece rimuovere, con molto danno, gran parte delle sculture ancora in situ. Ora si trovano a Londra, nel British Museum.
Il Partenone è sorto da un grandioso, ponderato disegno politico. Dopo la vantaggiosa pace con i persiani, Pericle cerca di conservare, sotto l'egemonia ateniese, l'unità delle città greche che avevano fatto lega nel momento del pericolo; nello stesso tempo, instaura una saggia politica di sviluppo economico e culturale. La costruzione di un monumento di splendore mai visto era un modo di dar forma visibile a un'ideologia, di dare a tutti i popoli greci un solo oggetto di culto, di affermare la supremazia ideale e politica di Atene; ma anche di accentrare nella città i migliori artisti greci, di fondere tradizioni artistiche e di culto regionali, di dare un vigoroso impulso allo sviluppo dell'arte, dell'artigianato, dei traffici, di accumulare nella città egemone una somma di valori culturali ed economici. L'attuazione di questo programma fu affidata a Fidia, che seppe coordinare tutti gli sforzi, realizzare quella sintesi, fare del Partenone l'immagine vivente della cultura e della civiltà di una polis che andava ormai molto al di là di Atene e dell'Attica. La tesi dell'opera è enunciata dai temi stessi delle figurazioni tutte ispirate all'idea centrale della vittoria della forma, come realtà ideale, sulla forza: null'altro che questo significano le Gigantomachie, le Amazzonomachie, le Centauromachie e, anche più esplicitamente, la vittoriosa contesa della giovane Atena (se ne raffigura la nascita) sul vecchio Poseidone (divinità superstite della mitologia arcaica) per il patronato di Atene e dell'Attica. Ma la decorazione, che pure rievoca miti remoti, si conclude, e proprio nella zona più sacra del tempio, con una figurazione del tutto nuova ed attuale: la celebrazione della massima festività della polis con la processione della nobile gioventù ateniese al tempio della dea patrona.
Delle due colossali statue criso-elefantine (d'oro e d'avorio) scolpite da Fidia - l'Atena Parthenos per il Partenone (438) e lo Zeus di Olimpia - non rimangono che frammentarie testimonianze iconografiche; come pure delle statue di Atena a Platea, a Pellene, ad Atene stessa. Altre opere note o ricostruite da copie sono: l'Amazzone, l'Apollo Parnopios, l'Anacreonte, l'Afrodite Urania, l'Afrodite seduta. Nei due frontoni del Partenone, dove più evidente è il suo intervento diretto, Fidia rompe decisamente lo schieramento frontale: il frontone non è più un dato spaziale a priori che detta il ritmo della composizione, ma una regione superiore, dove la luce è altissima e rarefatta, e dove immagini di un'umanità superiore, al limite del divino, si muovono liberamente. Dalla cavità le figure non emergono più con la nota saliente di un gesto, ma come masse percosse dalla luce e animate dal vento che si plasmano e configurano, quasi per miracolo, in figure umane aggruppate. Più che individuare le singole figure, Fidia cerca di dar vita a un ritmo che intrecci e identifichi i modi del divenire della realtà naturale (delle nuvole trascorrenti nel cielo, delle onde del mare, delle fronde dei boschi e delle messi dei campi) con quelli del divenire umano (le passioni dell'animo, le decisioni etiche, la conoscenza intellettuale): un ritmo, cioè, che sia ad un tempo il ritmo vitale della natura e della storia. Solo in questa identità, che gli permette di associare a parità di valore il racconto mitologico e lo spettacolo della vita in atto, egli riesce a chiudere nella forma una concezione totale del mondo, illimitatamente estesa nello spazio quanto profonda nel tempo.
Come nella realtà della natura e della storia, il ritmo della composizione fidiaca non è regolare o uniforme: ha impeti improvvisi e sùbite lentezze, trascorre come la corrente di un fiume o precipita in repentine cascate o si frange in mille rivoli. Il gruppo fidiaco non è più, come a Olimpia, un contrapporsi di sentimenti e di gesti; è un'unica massa modellata, con risalti salienti e profondità perdute, e in essa due o più figure formano un'assoluta unità plastica. I due processi tecnici e di determinazione formale, che abbiamo indicati come propri della statuaria marmorea e della bronzea, confluiscono e si fondono nella visione plastica fidiaca. Il movimento del gruppo nasce dal profondo delle masse, abbozza il contrapposto dei volumi, l'alternarsi delle sporgenze e delle cavità della forma; salendo alla superficie, configura con semplicità grandiosa le immagini e sùbito, affiorando alla luce viva, si dissolve in infiniti, concertati, vibranti effetti luminosi. Ma, nello stesso tempo, da quella superficie animata la luce scorre lungo i piani inclinati, nei canali tortuosi delle pieghe dei drappi; s'ingorga negli scavi profondi, penetra nella materia viva del marmo; si fa essa stessa volume, massa, materia. Se osserviamo più da vicino una di queste figure vediamo che non soltanto una precedente nozione anatomica ma la profonda architettura della massa determina la forma del corpo; su questo, le pieghe abbondanti delle vesti sono increspate, talvolta agitate e sconvolte, come drappi sbattuti dal vento nella luce vivida del sole. Lo stesso moto che fa di quei viluppi di pieghe una ineguale, splendente, mobilissima corrente di luce fa, altrove, aderire i veli ai risalti dei corpi, ne rivela il volume, scopre ed espone alla luce le superfici levigate del nudo. Né mai sapremmo dire se quel ritmo sia la vita della materia o il movimento del corpo o l'animazione profonda dello spazio infinito della natura: è tutto questo insieme, e non dato in una sintesi intellettuale e quasi in una formula, come nel canone policleteo, ma in quell'unità e simultaneità di "diversi" ch'è la vita stessa.
Questa straordinaria fusione di modellato costruttivo, profondo, architettonico e di modellato di superficie, come se fossero l'aria e la luce a premere e a plasmare in immagini umane la materia, pienamente traduce in puri valori di forma il tema ideologico, che abbiamo indicato, della lotta vittoriosa della idea-forma contro la materia-forza, del mito chiaro e moderno contro il mito oscuro ed arcaico, della natura-armonia contro la natura-potenza. Nella plastica fidiaca la materia-massa, elemento primigenio espresso dal seno profondo della terra, evolve nella forma spaziale e luminosa: passando attraverso la naturalità superiore, "civile" , della figura umana, si sublima nel supernaturale e nel superumano, nel divino.
Consideriamo, per esempio, il gruppo di Dione e Afrodite, del frontone orientale. Nella donna seduta il busto eretto è appena inclinato per equilibrare la spinta di quella sdraiata; le gambe flesse e disgiunte, formando volumi contrapposti ma legati dalle linee di tensione delle pieghe, ne sostengono il peso; nell'angolo formato dalle gambe e dal busto si appunta il gomito della sdraiata, e di qui parte una lunga onda di moto, che scorre con brividi continui d'ombra e di luce, lungo i canali tortuosi delle pieghe, per tutto il corpo. Inutile cercare di far coincidere questo o quel valore della forma con un particolare anatomico del corpo; ma inutile anche cercare una coerenza o una continuità nell'andamento delle pieghe come se fossero davvero mosse dal vento. In ogni figura la massa ha una struttura profonda e un andamento di superficie diversi; ogni figura trova un proprio rapporto armonico con la realtà del mondo: proprio perciò la figura umana, anzi le diverse "persone" del racconto mitico sono il tramite, la condizione di quel sublimarsi della materia in un valore di spazialità pura. Dunque questa sublimazione non è il prodotto di una legge di natura: mediata dalla figura umana, si attua attraverso una qualità che è propria dell'essere umano, cioè attraverso una civiltà che è anzitutto storia ed educazione attraverso la storia. Nell'alta metafisica della visione fidiaca lo spazio, che è nello stesso tempo la struttura costante e il mutevole fenomeno dell'essere, può essere dato tanto come profondità che come piano, tanto nel tutto-tondo della statua che nel bassorilievo.
Nel fregio la profondità è limitata dallo spessore sottile della lastra; la luce attenuata dell'ambulacro non incide direttamente sulla forma. Ma lo scultore compone e modella con la stessa libertà con cui compone e modella nello spazio libero: nella superficie della lastra definisce vari livelli di profondità, individua nodi strutturali, forti articolazioni formali, bastandogli un filo d'ombra a disegnare un volume, una superficie luminosa a situare una massa. Non v'è dramma in questa composizione continua, ch'è quasi un inno pindarico alla gioventù ellenica. Sulla superficie del presente o della vita in atto non trovano posto i grandi fatti storici, ma soltanto i piccoli eventi della realtà quotidiana: il cavallo che s'impenna, il giovane a cui si sono sciolti i lacci dei calzari. Ma anche questi piccoli eventi rientrano nel ritmo dell'essere; non cadono nel particolarismo dell'episodio e dell'aneddoto, anche se non hanno dietro di sé la profondità della storia e i lontani orizzonti del mito. La statua di Anacreonte, il poeta dei blandi sentimenti d'amore e dei ritmi melodici, ha bensì il classico pondus, ma temperato da un'impercettibile oscillazione del moto; e il modellato fermo del nudo è come velato da un chiaroscuro trepido, sfumato. Non è forse arrischiato dire che nel fregio delle Feste Panatenee una lieve brezza anacreontica s'intreccia alla scansione più tesa e librata dell'inno. È la prova della capacità di Fidia di cogliere la realtà a diversi livelli senza mai perdere il senso della sua unità; ma anche della continuità ch'egli sente nel divenire dell'ethos popolare ellenico, dai suoi miti più remoti alla società del suo tempo. È questa pluralità di motivi pur nella concezione unitaria del mondo che gli permette di sfuggire al pericolo di una mimesi oggettiva e descrittiva come a quello di una mimesi idealizzante, rispettivamente insiti nel virtuosismo di un Mirone o nella tendenza teorizzante di Policleto; e di fondare un nuovo valore della mimesi, come sintesi piena e vitale di idea ed esperienza.
Per la prima volta, con Fidia, un artista assume funzione e dignità di "maestro" , crea una scuola, determina una corrente di gusto, trasmette ai posteri non soltanto un'esperienza tecnica ma una cultura formale, uno stile. Dal genio classico di Fidia discende il classicismo fidiaco, che mai raggiunge l'altezza del maestro e talvolta ha il carattere ripetitivo e peggiorativo della "maniera" . Ma negli stessi artisti della sua corrente è chiara la coscienza che l'esempio del maestro non è raggiungibile, appartiene a una storia che non può ripetersi: non si può, dunque, che guardare al passato come a una "epoca aurea" perduta per sempre. Questo storicismo di fondo, che implica una certa sfiducia nella cronaca del presente e identifica il passato con l'universale e l'eterno, sarà, fino ai tempi moderni, il carattere di ogni classicismo. Poiché non si crede di potere uguagliare il maestro nei molteplici aspetti del suo genio universale, si riprendono e sviluppano caratteri particolari, spesso i più superficiali, del suo stile, portandoli talvolta all'eccesso. Nel caso di Fidia, il motivo che più facilmente trascorre nei seguaci, fino a diventare il tema dominante della scultura attica, è la fluidità dei ritmi lineari, il dissolversi della materia plastica nella vibrazione chiaroscurale, la scioltezza del movimento. Lo vediamo nelle cariatidi dell'Eretteo, sull'Acropoli, attribuite al più diretto seguace del maestro, ALKAMENES; e, con una crescente accelerazione delle cadenze lineari e luministiche, nel fregio della balaustrata del tempio di Atena Nike sull'Acropoli di Atene (410 circa). Nel ciclo delle Menadi, attribuito a CALLIMACO, le figure sono assorbite, quasi cancellate, nel vortice dei veli ritmicamente agitati intorno ai corpi: i solchi fitti delle pieghe, rifluendo in onde ritmiche, formano aloni di luce vibrante; il linearismo, non più impegnato a definire i contorni, si trasforma in un luminismo vorticoso; al movimento dell'azione succede quello della danza; alla serena proporzione "apollinea" succede, moderata soltanto da una suprema eleganza, l'eccitazione fremente della ritmica "dionisiaca" . Le sottigliezze lineari e chiaroscurali della corrente ionica, fino a questo momento periferica, confluiscono nella dilagante corrente fidiaca: PAIONIOS DI MENDE, nella Nike di Olimpia, osa librare la figura nello spazio aperto, sorreggendone il volo con l'ala dei veli gonfiati dal vento.
All'interpretazione di Fidia in chiave di eleganza manieristica reagisce vigorosamente SCOPA, attivo in Grecia e in Asia Minore nella prima metà del IV secolo: e non soltanto si richiama ai più forti motivi costruttivi ed espressivi del maestro, ma ai canoni quadrati, al rigore formale policleteo. In quel che rimane
dei frontoni del tempio di Tegea - alcune teste di guerrieri, frammentarie e corrose - Scopa afferma già il suo ideale eroico e quello che potremmo chiamare il pathos euripideo della sua plastica. Non più, come in Fidia, un'identità suprema di umano, naturale e divino, ma un sentimento aspro, quasi un'insofferenza della condizione umana. L'Olimpo è lontano, gli dèi beati assistono indifferenti alle vicende dei mortali; l'uomo deve trovare in se stesso la forza di affrontare il dramma dell'esistenza, e questa forza fa di lui un eroe, ma anche un ribelle contro l'ingiustizia del cielo. Anche la natura non è più amica: con la perennità dei suoi cicli, fa maggiormente sentire all'uomo il dramma del suo essere mortale. L'eroe non può che opporre l'impeto della passione all'indifferenza degli dèi e della natura; sfidando la morte valica e annulla il confine che lo separa dagli dèi immortali. Nella scultura di Fidia la forma plastica si ident ificava con lo spazio, in quella di Scopa lo conquista di forza. Il modellato parte dall'interno, spinge in fuori le forme; la superficie è rudemente tagliata, il suo contatto con la luce e l'atmosfera è urto ed attrito. Nelle teste di Tegea i volumi sono esasperati, a forti risalti corrispondono scavi profondi: luce ed ombra sono ormai elementi antitetici, in contrasto. Nella Menade di Dresda il busto è violentemente proiettato in avanti dall'opposto sbandare delle anche; la testa è rovesciata all'indietro; e certamente il gesto delle braccia, perdute, accentuava la torsione del busto, sottolineata anche dalle pieghe della veste scomposta. La figura si avvita nello spazio agitata da un moto che non può frenare: orgiastica e dionisiaca, ma nel senso tragico del termine, è presa nel vortice della danza come in un gorgo che finirà per sommergerla.
Nel periodo più inoltrato della sua attività, Scopa non fu insensibile alla nuova tematica di Prassitele e alla sua poetica della grazia malinconica. La statua di Pothos, la divinità minore che personifica il languore amoroso, risente del Sauroctonos, dell'Hermes di Prassitele: ma con una più accentuata deviazione dall'asse di equilibrio, con uno scatto più nervoso nelle gambe incrociate, con un chiaroscuro più movimentato e contrastato.
Il rapporto tra i due maestri si spiega: come Scopa, e di lui maggiore, PRASSITELE opera in un'agitata situazione storica. Dopo l'euforia del trionfo, la minaccia persiana riappare più vicina e più subdola, sfruttando la rivalità delle città greche, la crisi della democrazia ateniese. Le guerre peloponnesiache non sono più la lotta comune contro l'invasore barbaro, ma il travaglio interno del popolo greco che non riesce a definire la propria figura storica. Il mito non spiega più la vita, si allontana, diventa favola; è più legato alla natura che agli uomini, la cui esistenza storica si distingue sempre più dall'esistenza "naturale" . La natura stessa è un "oggetto" rispetto all'uomo "soggetto" : ciò che conta non è più la profonda armonia tra natura e uomo, ma l'atteggiamento dell'uomo verso le cose naturali, il suo sentimento" della natura.
Era figlio, Prassitele, di uno scultore ateniese, Cefisodoto rinomato bronzista; ma la materia prediletta da Prassitele fu il marmo, una materia in cui l'artista opera direttamente e che più delicatamente reagisce al contatto della luce e dell'atmosfera. Non fu un creatore di grandi cicli mitologici e storici. Preferiva la statua isolata, di grandezza conforme al vero; la statua era per lui l'immagine di una "persona" ideale, di una bellezza a cui si aspira ma che, proprio perciò, non è data a priori come modello o archetipo. Per Fidia la statua era la forma dello spazio e della persona ad un tempo; per Prassitele è forma umana che si colloca ed esiste nello spazio naturale. Le figure prassiteliche, infine, sono bensì divinità olimpiche, ma calate nella dimensione dell'umano, fatte capaci di sentire e reagire, e, per questa loro umanità, non più arbitre e sovrane. Si è celebrata, di Prassitele, la fedeltà alla natura; si ricordano i nomi dei suoi modelli; si è detto che, scegliendo in essi le qualità del bello, non mirava a scoprire le strutture eterne dell'essere, ma a cogliere la grazia di un atto o di un movimento. Dunque il bello non è un principio eterno, ma un'apparizione momentanea, che bisogna sapere afferrare; non discende più dall'alto come un'idea universale, ma sale dal basso come aspirazione umana. Non è più la ragione che lo scopre, ma il sentimento. Tra le divinità olimpiche, Prassitele prediligeva quelle più vicine alla natura, o quelle che incarnavano sentimenti umani più che poteri divini: Afrodite o l'amore, Apollo o l'ispirazione poetica, Hermes o l'ingegno, Artemide o il sentimento della natura. E le raffigurava giovani, perché proprio nei giovani il sentimento "naturale" viene educato attraverso la paideia.
Prassitele non ama i gesti, studia gli atteggiamenti: allontanandosi sempre più dalla legge classica del ponderato equilibrio, pone le figure in una condizione di equilibrio instabile, compensato da un appoggio esterno: un lembo di drappeggio, un tronco. Nell'Apollo Sauroctonos, noto da copie, la gamba portante non coincide con l'asse e la figura ha bisogno di appoggiarsi, dalla parte opposta, al tronco dell'albero: facendo perno su quella gamba, la figura si flette e raddrizza con andamento sinuoso. Il modellato è morbido, senza forti risalti e depressioni; il chiaroscuro non costruisce saldamente la forma ma l'avvolge in uno sfumato discontinuo, in cui s'alternano addensamenti e schiarite. Nella Afrodite Cnidia il braccio piegato ad angolo e leggermente arretrato, con l'appoggio "visivo" del drappeggio ricadente, basta a permettere, in tutta la figura, uno sviluppo di linee curve e di piani dolcemente ondulati; nell'Hermes e Dioniso di Olimpia (unico originale di Prassitele che ci sia pervenuto) l'estrema mobilità del chiaroscuro sul corpo del Dio ha la sua giustificazione nell'evidente spostamento del centro di gravità del gruppo. Il modellato di Prassitele è morbido, quasi serico, e proprio perciò sensibilissimo alla luce; il movimento, la vita della figura sono spesso rivelati dall'istantaneo guizzo di un muscolo, da una piega della pelle. Non sono, questi, moti che esprimano un'azione decisa e compiuta, ma piuttosto un istintivo, quasi involontario, sentire e reagire.
LISIPPO DI SICIONE fu, come Apelle pittore, artista prediletto da Alessandro Magno: con lui si chiude il periodo classico e si apre la fase ellenistica. Straordinariamente fecondo, avrebbe scolpito, stando alle fonti, millecinquecento statue; e già la varietà dei temi trattati basterebbe a fare di lui il precursore della scultura ellenistica. Si disse di Lisippo ciò che, nel XVII secolo, si disse del Caravaggio: che disdegnasse l'insegnamento degli antichi, riconoscendo la natura come sola maestra. In realtà, egli fu il creatore di una nuova poetica, rinnovatrice: la novità è appunto il richiamo, non già alla natura, ma all'esperienza visiva. Lo scultore non imita la figura umana come un oggetto, di cui si potrebbe, volendo, ricavare un calco preciso; imita la immagine afferrata dall'occhio, e questa è fatta di macchie colorate, più chiare e più scure. La differenza è tutt'altro che irrilevante: la volontà di rappresentare il corpo non
com'è, ma come appare, implica la rinuncia ad una preliminare nozione del vero e l'accettazione del dato di visione, corrisponda o non al vero, come punto di partenza dell'arte. L'ultima conseguenza sarà quella che ne trarrà l'arte ellenistica: non v'è una classe di figure o di cose che formino il mondo dell'arte, ma ogni immagine può interessare l'artista. Anche Lisippo ha un suo canone, che indubbiamente tiene conto di quello policleteo, ma lo rettifica nel senso di considerare tutti i fattori (distanza, condizioni atmosferiche e luminose) che modificano, nella veduta reale, la forma ideale. L'Apoxyomenos (atleta che si deterge il sudore), noto da una copia, risponde appunto al nuovo canone lisippeo: coglie la figura, non già nell'atto tipico dell'azione atletica, ma nel gesto occasionale del detergersi; e benché il corpo graviti, con perfetta "ponderazione" , sulle gambe, le braccia protese implicano nella struttura plastica lo spazio vuoto antistante, allontanano il busto, producono un effetto di ombre portate, che entra di pieno diritto nel sistema delle forme plastiche della statua. Benché il risultato sia indubbiamente luministico, non per questo si applica alla scultura la condizione di veduta, da un punto di vista unico, della pittura: da tutti i punti di vista la statua si presenta sempre come un animato complesso di masse d'ombra e di luce. Il suo valore, quindi, non sta nel fatto che, mutando il punto di vista e quindi la configurazione dell'immagine, si abbia sempre lo stesso rapporto di parti, come se il mutare dell'apparenza non potesse mutare la sostanza della forma; ma nel fatto che il mutare del punto di vista muta anche strutturalmente la figura, e l'opera d'arte vale proprio in quanto si dà in una successione d'immagini diverse. Riportato alla natura, questo principio equivale ad affermare che ogni fenomeno vale per se stesso e il tutto non è che un'infinita serie di fenomeni, negando così che la varietà dei fenomeni o delle apparenze riveli pur sempre la sostanza di fondo di una costante, immutabile struttura. Lisippo, tuttavia, non trascura, al contrario, la coerenza che pure collega i diversi "effetti" delle sue statue: ora snellisce la figura, come nell'Hermes che si allaccia un sandalo, ora l'appesantisce come nell'Eracle, ora intensifica le ombre, ora le dirada per un effetto generale di luminosità. Può darsi che una delle sue opere, il Kairos (l'Occasione), molto commentata dagli antichi scrittori, fosse una specie di programma, l'enunciazione figurata della poetica dell'artista, sempre attento alla "occasione visiva" e avente come ultimo fine di rendere nell'arte, e nel continuo variare delle sue forme, il variare continuo delle forme naturali. Si spiega facilmente, anche, come Lisippo, muovendo da questi presupposti, sia stato un grande ritrattista, anzi il creatore, con le famose figure di Alessandro, di quella che si chiamerà la ritrattistica "eroica" : rivolta cioè, non già a idealizzare la figura riportandola alla regolarità del bello, ma a cogliere e sottolineare il "carattere" del personaggio, ricostruendone la storia da un gesto o da un aspetto particolare.


La scultura ellenistica

Entro il vasto orizzonte aperto al mondo antico dalle conquiste di Alessandro il Macedone, la cultura artistica greca si diffonde illimitatamente, al tempo stesso arricchendosi di nuovi spunti e motivi, specialmente orientali.
L'impero succede alla polis; e, nella società più differenziata ed estesa, anche il concetto della personalità umana si trasforma. L'ideale non è più il perfetto cittadino, ma il personaggio illustre: il condottiero, il poeta, il filosofo.
Il dominio in cui l'arte ellenistica ha realizzato i suoi massimi valori è la statuaria ritrattistica; e poiché dei grandi uomini si vuole tramandare, con le fattezze, la memoria delle virtù intellettuali o morali, bisogna che i tratti del volto possano manifestare le qualità del pensiero e dell'animo. Non si può escludere che, a determinare questo interesse per la figura "storica" , e cioè per un bello morale del tutto indipendente e talvolta antitetico rispetto al bello naturale, abbia concorso l'invito socratico a conoscere se stessi; e forse anche il ricordo della grandezza spirituale e morale che, in Socrate, si associava a una bruttezza "satiresca" .
Di Socrate, appunto, rimane un ritratto che in nessun modo corregge o dissimula l'irregolarità dei tratti fisionomici, ma celebra anzi la bellezza di una vasta fronte pensosa, di uno sguardo vivo dal fondo delle orbite infossate, l'eloquenza e l'arguzia di una larga bocca tra i peli della barba. A Lisippo risale probabilmente il tipo originario del ritratto di Aristotele, anch'esso caratterizzante e celebrativo ad un tempo, come se la dignità morale del personaggio valesse da canone a un nuovo ideale di bellezza; e gli sono vicine, per la severità della figura
drappeggiata e l'interpretazione sempre pertinente e penetrante della vita interiore del soggetto, l'Euripide, il Sofocle, il Demostene etc.
Due considerazioni sono da farsi a proposito di questi ritratti ellenistici. Prima: la scultura è ritenuta l'arte più capace di individuare, fissare e tramandare la memoria di un personaggio illustre, affinché abbia forza di esempio; se la statua è la figura storica della persona, la scultura è l'arte che la definisce e rivela, e ha quindi una sua profonda affinità con la storia. Seconda: se la scultura deve rendere visibili le qualità morali nell'atteggiamento e nei tratti fisionomici della figura, questa interpretazione compendiosa e non analitica del vero implica la rinuncia ai canoni formali e il ricorso alle più sottili possibilità della tecnica.
La cultura figurativa ellenistica ha una radice classica, ma non risulta dalla diffusione dei modi attici; anzi, con il formarsi dei vari regni dopo la conquista di Alessandro, l'Attica e la Grecia stessa cessano di essere il centro direttivo della cultura artistica, e molti altri centri si formano, specialmente in Asia Minore, e nelle isole: Pergamo, Rodi, Alessandria, etc.
Nel III secolo Pergamo, dopo la vittoria di Attalo I sui Galati, diventa una grande città, con una Acropoli monumentale. Su di essa Attalo I eresse un tempio ad Atena Polias e ne ornò la piazza antistante con statue bronzee (che conosciamo in parte da copie in marmo); altre, simili nel tema e nello stile, Attalo II collocò nel donario sull'Acropoli di Atene (201 a.C.). Il tema dominante è la vittoria sui "barbari" , il trionfo della civiltà sulla forza; ma, benché accompagnato da figurazioni mitologiche, questo tema è ormai sentito come storia contemporanea. Il Galata morente, il Galata che si uccide con la sposa riflettono il dramma, umanamente sentito, dei barbari sconfitti: con tanta forza patetica e con tanta evidenza veristica mista ad enfasi oratoria, da meritare allo stile pergameno la qualifica, naturalmente impropria, di "barocco antico" . Il barbaro non è più un mostro; è un essere umano che associa alla naturale rudezza una sua nobiltà e una sua fiera bellezza. È l'essere delle forti, indomate passioni: e queste specialmente gli scultori s'impegnano a caratterizzare nei volti vigorosamente modellati, con i tratti duri e violenti sotto le ispide capigliature, e nei grandi corpi muscolosi. L'origine è, forse, la patetica scultura di Scopa la cui tarda opera nel Mausoleo di Alicarnasso ebbe larghi sviluppi in Asia Minore; ma nuovo è il modo di mescolare a un discorso rettorico, quasi per renderlo credibile, un'estrema, spesso virtuosistica, cura nella resa scultoria dei particolari.
La scultura è ora intesa come un'arte che, trasponendo ed eternizzando nel marmo il fatto reale, lo ingrandisce, gli conferisce dignità di fatto storico, lo traspone sul piano del "sublime" .
Sono conservate nell'originale le sculture della grande ara dedicata a Zeus Sotèr e ad Atena Nicefora da Eumene II dopo la seconda vittoria sui Galati (183 a.C.). Il monumento (ora ricostruito nel Pergamonmuseum, nel Museo di Stato di Berlino con quanto rimaneva delle sculture originali) aveva pianta quasi quadrata; uno dei lati maggiori era aperto, con una grande scalea; nell'alzato c'era un alto basamento decorato da un fregio scolpito continuo e sormontato da un porticato ionico. Invece della cella v'era uno spazio rettangolare scoperto, al cui centro era l'altare del sacrificio. Il grande rilievo dello zoccolo rappresentava, interpretata in senso cosmologico, la gigantomachia; il fregio minore, nell'interno del colonnato, le storie di Telefo. Il fregio esterno, firmato da scultori di varia provenienza operanti sotto la direzione di un solo maestro, sviluppa un complesso racconto cosmico-mitologico, che comincia nel lato ovest con le divinità del mare e della terra, séguita nel lato nord con le divinità della notte e nel lato sud con quelle del cielo diurno per concludersi nel lato est, frontale, con le divinità dell'Olimpo. Sul fondo liscio le figure spiccano in alto rilievo, spesso raggiungendo effetti di tutto-tondo; il movimento si svolge come un'onda continua, ma pieno di scatti, senza regolarità di ritmo. L'invenzione impetuosa travolge ogni consuetudine iconografica, l'immaginazione dell'artista insegue sfrenata strane combinazioni di umano e belluino, di bello e mostruoso, nelle figure dei giganti, dei geni alati, di divinità minori. L'ideatore del fregio sfrutta abilmente tutto il patrimonio formale della scultura greca, dalla luce irrompente di Fidia alla espressività esasperata e alla modellazione forte di Scopa. Ma si tratta di una esperienza nettamente formalistica, di un sapiente, calcolato ricorso a effetti già sperimentati per dare all'alta rettorica del discorso plastico una maggiore forza emotiva.
Lo stesso andamento apparentemente aritmico ha lo scopo di rompere la fluenza continua delle figure, di farle balzar fuori, una ad una, dal pur legato contesto. La stessa insistenza con cui sono incisi nei volti e nei gesti i segni di una concitazione passionale o icasticamente descritti certi particolari (le ciocche dei capelli, le penne delle ali, le squame dei serpenti) concorrono a rendere verosimile e quasi a documentare il racconto fantastico: fino a fare uscire dal rilievo alcune figure, che si appoggiano con le ginocchia o con le mani sui gradini della scalea.
Carattere molto diverso ha il rilievo con le storie di Telefo. Il nesso che collega le figure non è più un profondo ritmo formale, come negli esemplari classici, né l'enfasi travolgente di un discorso poetico, come nella gigantomachia dello zoccolo, ma lo svolgimento continuo di una narrazione, un succedersi di episodi pacatamente narrati e accuratamente ambientati: è il primo esempio, cioè, della "narrazione continua" che avrà un largo sviluppo nella scultura romana. Poiché la narrazione evita l'enfasi, non vi sono figure fortemente emergenti: l'artista preferisce comporre in profondità: invece del piano liscio che sbalza le figure della gigantomachia, il fondo ha una profondità prospettica in cui si disegnano, illusionisticamente, edifici, alberi, rocce. Il modellato delle figure è moderato, pieno di sfumature, di pretesti a una varietà infinita di effetti di luce che mirano a fondere figure e spazio paesistico in una stessa atmosfera luminosa. Al plasticismo esasperato del primo fregio, che intensifica i chiari e gli scuri fino al contrapposto luministico, succede un pittoricismo disteso, che sfrutta coloristicamente anche le minime variazioni luminose.
Nella costellazione dei centri micro-asiatici di cultura figurativa ellenistica emergono Antiochia, dove al principio del III secolo opera EUTYCHIDES, un sottile, manierato allievo di Lisippo; laBitinia, dove BOETOS tocca la leziosità nel gruppo del fanciullo con l'oca, ma DOIDALSAS, nell'Afrodite accovacciata, sa unire la ricerca di una luminosità umida e quasi epidermica a un raccolto ritmo di linee curve e di angoli; Magnesia, dove il grande Artemision dell'architetto ERMOGENE, aveva nel fregio una movimentata amazzonomachia, dal rilievo intensamente luministico; Tralles, dove gli scultori del supplizio di Dirce, noto dalla mediocre copia romana già nelle Terme di Caracalla, ostentano un virtuosismo quasi acrobatico nelle pose dei personaggi intorno al toro infuriato e nella resa illusionistica del pelo ispido degli animali o delle zolle smosse del terreno.
Anche da Lisippo muove la corrente rodia, attraverso CHARES, autore del famoso colosso, statua gigantesca del Sole dedicata nel 290 a.C. Di artisti rodioti è uno dei massimi capolavori della scultura ellenistica, la Nike di Samotracia: alata figura che atterra, nel risucchio del vento, sulla prua di una nave. Il drappeggio, ora premuto dal vento sul corpo, ora sfuggente in ariosi svolazzi, ha qui la duplice funzione di rendere, in una rapida sintesi plastica, la figura e il vortice d'aria prodotto dal suo volo e dal sùbito arresto, e di suscitare nella massa marmorea tensioni lineari che le tolgono ogni peso di materia e la librano libera nello spazio.
Malgrado il tema tanto diverso, la stessa ricerca si nota nella Musa Polimnia, da un originale di FILISCO (II secolo a.C.): una massa chiusa, che poco o nulla lascia trasparire del movimento del corpo, ma resa leggera dalla modulazione delle curve ascendenti e dal gioco luminoso del drappeggio, fitto e profondo in basso e dispiegato, in alto, in morbide superfici madide di luce.
Ad una fase molto più inoltrata appartiene il tanto celebrato gruppo statuario del Laocoonte opera di AGHESANDRO, POLIDORO, ANTANADORO. Emerso da uno scavo nel 1506, a Roma, fu uno dei modelli del classicismo del Rinascimento; più tardi, nel secolo XVIII, fornì al Lessing l'occasione di un saggio famoso, che muovendo dalla critica del principio barocco "ut pictura poesis" giunge a enunciare le premesse di una critica d'arte fondata sui valori della visione figurativa. Ma non può negarsi la relazione (diretta o per dipendenza da una fonte comune) tra la descrizione plastica e quella poetica che, del medesimo fatto, dà Virgilio nell'Eneide. Gli scultori del Laocoonte hanno lavorato su un tema letterario, cercando di tradurlo in scultura, descrivendo lo sgomento del padre e dei figli assaliti dai serpenti marini, l'invettiva contro gli dèi ingiusti. La scultura è ormai una tecnica al servizio di un fine rettorico: e per dare evidenza all'immagine e commuovere lo spettatore pone in atto gli espedienti più scaltri, anche se con il crescente virtuosismo tecnico s'indebolisce la forza plastica della forma.
Rientra ugualmente nell'ambito della rettorica, nel senso dato al termine da Aristotele e dai suoi commentatori, il gusto, specialmente alessandrino, di fingere aspetti singolari e curiosi, spesso anche disgustosi, della realtà naturale e sociale. Aristotele diceva che si possono imitare le cose come si vorrebbe che fossero, come sono, peggio di come sono: dunque non è la bellezza del modello ma la bravura dell'artista che fa la bellezza dell'arte. La stessa civiltà che produce immagini di bellezza come l'Afrodite di Milo e l'Afrodite di Cirene o la fanciulla di Anzio produce anche il vecchio pescatore e la vecchia ubriaca: l'arte è un modo di interpretare la realtà e gli aspetti della realtà sono infiniti, belli e brutti; ma tutti interessano ugualmente l'artista.


L'urbanistica e l'architettura ellenistica

Il mondo ellenistico è un mondo di movimento, di relazioni, di scambi: ceti sociali differenziati non più soltanto per casta o per nascita, ma per censo e professioni; cultura diffusa e specializzata; grande sviluppo tecnico; produzione e traffici intensi. Le grandi città hanno ciascuna un proprio carattere, i proprii monumenti, le proprie scuole artistiche; ma tutte attingono alla comune fonte classica, tutte si sentono partecipi di un'immensa comunità, fatta di stirpi e di genti diverse, una "ecumène" . All'organismo chiuso della polis succede la città come organismo aperto e in continuo sviluppo, frequentata da stranieri che spesso vi si stabiliscono: è luogo di produzione industriale, emporio commerciale, centro culturale.
Dal punto di vista urbanistico, la città ellenistica può a prima vista apparire soltanto come un ingrandimento della città classica: conserva e sviluppa lo schema regolare, a scacchiera, e la distribuzione a terrazze sui pendii naturali, che IPPODAMO DI MILETO, un architetto del tempo di Temistocle, aveva teorizzato come schema ideale. Ed è significativo che proprio ad Ippodamo Strabone attribuisca, sia pure dubitativamente, la fondazione e il primo tracciato di Rodi, una delle più famose città ellenistiche. Di fatto, la città ellenistica è una realtà sociale ed edilizia molto diversa da quella classica. Poiché la natura stessa non è più concepita come una forma costante sotto le apparenze mutevoli, ma come un vario insieme di fenomeni, la struttura urbana, che è sempre in rapporto con la concezione dello spazio naturale, è una struttura priva di costanti normative, intimamente connessa con la configurazione del suolo, con il paesaggio, con le condizioni climatiche. La rete stradale a scacchiera è bensì uno schema ricorrente, ma la sua funzione è soprattutto di rendere possibili una distribuzione di spazi e un allineamento edilizio che diano luogo a grandi, scenografiche, sempre diverse prospettive di veduta. Anche i "monumenti" , i grandi edifici d'interesse pubblico sono pensati in funzione di questo ordinato paesaggio urbano: sono i fondali delle piazze, la conclusione di una lunga prospettiva, il centro di un incrocio di grandi vie, un punto di riferimento visibile da tutta la città o da chi vi giunga per terra o per mare. Più che come unità plastica a sé, l'edificio è un elemento di quella più grande architettura che è la città: perciò prendono valore le facciate, i portici, le scalee, i propilei, cioè tutti quei tipi che si prestano a una buona situazione e distribuzione prospettica e a una organica articolazione degli animati spazi urbani. La grande invenzione ellenistica è infatti la concezione della città come paesaggio architettonico, scenario dai molti aspetti al muoversi di una società quanto mai varia e animata.
Non mutano sostanzialmente gli elementi basilari della morfologia architettonica classica; muta radicalmente il modo di svilupparli e combinarli, muta la proporzione degli edifici, muta infine la concezione stessa della costruzione, non più intesa come forma chiusa ma come organismo aperto. Le innovazioni sono minime nella forma del tempio, in cui è reso più libero e atmosferico il rapporto tra la peristasi (il colonnato) e il volume chiuso della cella; ma il tempio stesso diventa l'elemento di un complesso più vasto, formato di piazze o corti porticate, di gallerie di colonne etc. (si veda l'Artemision di Magnesia, costruito nel III secolo da Ermogene). Frequente è lo schema rotondo, per lo più adottato per templi di piccole dimensioni, quasi sempre inseriti in un contesto prospettico. Un tipo nuovo, di tempio "aperto" è l'ara monumentale, di cui è massimo esempio il già descritto altare di Pergamo: più che tempio, è un luogo o recinto sacro, largamente praticabile, con l'ara sacrificale al centro. Le sue superfici esterne, con il loro ampio sviluppo, sembrano fatte apposta per il dispiegarsi della decorazione scultoria. Altra forma aperta, di raccordo tra il nucleo dell'edificio e lo spazio circostante è il portico, galleria a colonne, che nella città ellenistica appare ovunque: all'esterno, come recinto di piazze e come articolazione tra diversi corpi di fabbrica; all'interno degli edifici pubblici e privati, come recinto di cortili e collegamento interno tra i lati della costruzione. Un tipo particolare di portico, detto "pergameno" , consta di due ordini sovrapposti, dorico e ionico. Rientra nella tipologia del portico e delle sue applicazioni e varianti la cosiddetta sala ipostila (Delo, III secolo): costruzione rettangolare con tetto a spioventi sostenuto da colonne, per riunioni di mercanti. Particolarmente notevole, in età ellenistica, è lo sviluppo degli edifici per spettacoli. Ne sorgono ovunque, ripetendo con varianti lo schema classico: le trasformazioni principali si hanno nella forma della scena e dell'orchestra, in rapporto con il prevalere della nuova commedia sulla tragedia, col progressivo ridursi della funzione del coro e dei suoi movimenti, col trasporto di tutta l'azione sul proscenio. L'anfiteatro, dedicato specialmente ai giochi ginnici, raddoppia la forma del teatro, che diventa un anello o un'ellisse intorno all'area delle gare. Collegata alla forma del teatro è quella del bouleuterion (famoso quello di Mileto), per le assemblee popolari: risulta dall'innesto di una scalea semicircolare, come quella dei teatri, su una corte quadrangolare porticata. Architetture aperte possono anche considerarsi i ginnasi e le palestre: il primo è uno spazio scoperto per gli esercizi di corsa, lancio del disco etc., il secondo un luogo chiuso per gli esercizi di lotta e pugilato: spesso i due tipi sono collegati, disponendosi gli ambienti chiusi intorno a uno spazio scoperto porticato (peristilio). Le terme, bagni pubblici spesso collegati con ambienti per trattenimenti e per esercizi sportivi, sono rare nell'ambiente ellenistico greco; saranno invece molto frequenti a Roma.
L'abitazione privata ha, in epoca ellenistica, un grande sviluppo anche dimensionale: la casa conserva il tipo tradizionale a mègaron, con ambienti distribuiti intorno a un cortile che si trasforma via via in peristilio, ma, ingrandendosi, adornandosi, collegandosi a giardini, diventa poco a poco distintivo di grado sociale.
Molto varie sono le forme dell'architettura funeraria: si va dal semplice cippo di pietra, con un'iscrizione e talvolta un piccolo rilievo, al grande mausoleo architettonico. Particolarmente notevoli sono le tombe scavate nel terreno o nella roccia (ipogei) con facciate monumentali: le tombe rupestri di Petra, in Arabia, sono il tipico esempio di un'architettura puramente frontale, libera da ogni esigenza statica e quindi aperta a tutte le possibilità formali, e collegabile, perciò, da un lato con l'architettura della scena teatrale (per influsso romano) e, dall'altro, con le architetture dipinte della decorazione parietale ellenistica.


La pittura greca

Conosciamo la scultura greca da pochi originali e da molte copie: della pittura, che gli antichi scrittori celebrano come altrettanto e forse più grande della scultura, non abbiamo che le notizie delle fonti letterarie e i pallidi riflessi iconografici delle figurazioni dipinte sui vasi. La funzione sociale del pittore non era, in epoca classica, meno importante di quella dello scultore: grandi quadri con figurazioni mitologiche ornavano l'interno dei pubblici edifici o venivano riuniti ed esposti in speciali pinacoteche.
Il più antico dei grandi pittori menzionati dagli scrittori è POLIGNOTO DI TASO, attivo alla metà del V secolo: di lui si dice che fu un eccellente ethographos (abile nell'esprimere gli stati d'animo) e che, nelle sue figure, s'indovinavano, sotto le vesti, le forme del corpo. Si è riconosciuta una debole impronta della sua pittura in alcuni vasi a figure rosse, le cui figurazioni dipendono sicuramente da megalografie (dipinti di grandi dimensioni) e, in modo particolare, in un cratere su cui è rappresentata la strage dei Niobidi. Solo poche linee ondulate indicano allusivamente i diversi piani; in realtà le figure sono come sospese e isolate sulla superficie. Mancando ogni effetto di profondità e di rilievo, il suggerimento delle forme dei corpi sotto le vesti doveva essere affidato speci almente alla linea, che dunque indicava tanto le parti visibili che quelle celate. Poiché solo nell'immaginazione può darsi una siffatta simultaneità, Polignoto mirava a tradurre direttamente nella figura dipinta l'immagine mentale, evitando di materializzarla, proponendosi di lasciarle la sua impalpabile sostanza d'immagine.
Si spiega allora come la sola forza della linea bastasse a esprimere uno stato d'animo o un sentimento: con una sobrietà di segno che forse accostava la pittura di Polignoto alla scultura del Maestro di Olimpia.
Molto diversa doveva essere la pittura di PARRASIO, attivo nello stesso periodo, lodato da Plinio il Vecchio (che però ripeteva fonti greche) per avere raggiunto la perfezione nei contorni dei corpi e dato alla pittura le norme della simmetria. Infatti, aggiunge, ogni forma "prometteva altre forme al di là di sé rendendo evidenti le parti celate" : in altri termini, le linee di contorno, sempre più stringenti, definivano sul piano la plasticità dei corpi. Non è dunque improbabile che la pittura di Parrasio si muovesse nella stessa direzione della scultura di Fidia, con cui fu certamente in rapporto. L'analogia e la relazione sono tanto più verosimili in quanto v'è tutto un gruppo di vasi (detti del "pittore di Achille" e "del pittore della Pentesilea") che riflettono la grandiosità compositiva e la severità ritmica della scultura fidiaca.
ZEUSI, forse lucano, lavorò alla fine del V secolo. Quintiliano lo celebra per il modo con cui seppe rendere gli effetti di luce ed ombra, Luciano per la genialità inventiva e la novità dei temi, Aristotele per la bellezza ideale delle sue figure che tuttavia considera, per la maestà, inferiori a quelle di Parrasio. Non vi sono tracce della sua pittura nelle decorazioni vascolari; evidentemente la sua pittura, ombreggiata e compositivamente complessa, non si prestava più ad essere tradotta nella continuità grafica e nel piano unico della decorazione della ceramica.
Il più celebrato dei pittori greci fu APELLE, che visse nel IV secolo e fu l'artista prediletto di Alessandro Magno. Di lui gli scrittori descrivono, come immagine della perfetta bellezza, una Afrodite Anadiòmene; e lodano la grazia e la varietà dei movimenti, il colorito animato delle sue figure. Tutto fa supporre che la sua pittura, non diversamente dalla contemporanea scultura di Lisippo, abbia aperto la via alla vivacissima, multiforme cultura pittorica dell'ellenismo.
Anche di questa, tuttavia, non rimangono che testimonianze indirette: nella scultura, anzitutto, che in periodo ellenistico fa certamente proprie le esperienze pittoriche e, poi, nelle decorazioni parietali ellenistiche. Già nel IV secolo si
cominciano ad ornare alcuni ambienti dei palazzi e delle case signorili con figurazioni a mosaico: si tratta, anche di questo caso, di versioni artigianali, in una tecnica stabile e capace di produrre vivaci effetti coloristici, di figurazioni pittoriche. Una di esse, tuttavia, ritrovata a Ercolano, sembra discendere direttamente da una "megalografia" della fine del IV secolo: si tratta della rappresentazione della battaglia d'Isso tra Alessandro e Dario. Lo sfondo è d'una tonalità chiara, quasi bianca, unita; i colori sono anch'essi armonizzati in gamme chiare, in cui prevalgono le ocre ed i bruni. Lo spazio è sommariamente indicato con la prospettiva delle lance e delle spade cadute in primo piano, con i rami di un albero spoglio nel fondo. Muove da sinistra l'ondata crescente della cavalleria di Alessandro; ha un momentaneo arresto al centro, col cavallo caduto e quello impennato; si forma un breve vortice vuoto, con lo scorcio rapido del cavallo visto da tergo; il moto delle truppe persiane all'attacco è sinteticamente indicato con le lance inclinate del fondo; ma ad esso contrasta il movimento dei cavalli del carro di Dario, già in fuga. V'è dunque una contrazione nei tempi della descrizione: che ci dà simultaneamente l'attacco, il contrattacco, la mischia e il suo esito. Ad essa corrisponde, come s'è veduto, una contrazione nello sviluppo spaziale-prospettico: il ritmo stesso del moto, più che con un incalzante ritmo di linee e di masse, è ottenuto con la fusione e la gradazione dei toni di colore.
La pittura vascolare non può considerarsi un'arte minore, un riflesso artigianale della grande pittura; anche se a questa è in parte collegata nel corso del V e con figurazioni a mosaico: si tratta, anche di questo caso, di versioni artigianali, in una tecnica stabile e capace di produrre vivaci effetti coloristici, di figurazioni pittoriche. Una di esse, tuttavia, ritrovata a Ercolano, sembra discendere direttamente da una "megalografia" della fine del IV secolo: si tratta della rappresentazione della battaglia d'Isso tra Alessandro e Dario. Lo sfondo è d'una tonalità chiara, quasi bianca, unita; i colori sono anch'essi armonizzati in gamme chiare, in cui prevalgono le ocre ed i bruni. Lo spazio è sommariamente indicato con la prospettiva delle lance e delle spade cadute in primo piano, con i rami di un albero spoglio nel fondo. Muove da sinistra l'ondata crescente della cavalleria di Alessandro; ha un momentaneo arresto al centro, col cavallo caduto e quello
impennato; si forma un breve vortice vuoto, con lo scorcio rapido del cavallo visto da tergo; il moto delle truppe persiane all'attacco è sinteticamente indicato con le lance inclinate del fondo; ma ad esso contrasta il movimento dei cavalli del carro di Dario, già in fuga. V'è dunque una contrazione nei tempi della descrizione: che ci dà simultaneamente l'attacco, il contrattacco, la mischia e il suo esito. Ad essa corrisponde, come s'è veduto, una contrazione nello sviluppo spaziale-prospettico: il ritmo stesso del moto, più che con un incalzante ritmo di linee e di masse, è ottenuto con la fusione e la gradazione dei toni di colore.
La pittura vascolare non può considerarsi un'arte minore, un riflesso artigianale della grande pittura; anche se a questa è in parte collegata nel corso del V e della prima metà del IV secolo, elabora una propria esperienza stilistica e tecnica e adempie a una propria funzione sociale.
Nella produzione economica greca la ceramica ha un'importanza preminente: ad Atene un intero quartiere, detto appunto il Ceramico, era occupato dalle officine e dalle botteghe dei vasai.
La vastissima area mediterranea in cui si trovano vasi greci prova che l'esportazione era intensa. Il fatto che pittori e vasai firmassero spesso i loro prodotti, e che le fonti letterarie ne parlino con grande rispetto dimostra che la ceramica era posta a un livello di valore appena inferiore a quello della pittura e della scultura.
Era diversa, però, la sua destinazione sociale. L'opera dei pittori e degli scultori era per lo più destinata a una funzione celebrativa ed educativa, come decorazione di templi e di pubblici edifici: la produzione ceramica, con i suoi numerosi tipi e i suoi diversi gradi di valore, circola in tutti i ceti sociali, costituisce elemento essenziale della suppellettile domestica. Le diverse fogge dei vasi sono in rapporto alla loro funzione; ma queste funzioni sono per lo più domestiche. Tra esse, la principale è quella di servire alle libagioni nel corso dei "simposi" , che a loro volta costituivano l'atto tipicamente sociale della vita famigliare. La libagione stessa, che all'origine era una pratica religiosa, conserva anche nel simposio famigliare un carattere rituale, che spiega il ricorso delle figurazioni sacre sui vasi e sulle coppe. Anche i temi mitologici, però, sono trattati con mano leggera, in tono confidenziale e qualche volta burlesco: quale s'addice, appunto, alla funzione conviviale. E sfumano spesso in motivi profani, più vicini alla vita quotidiana: giochi ginnici, scene del teatro.
Il fatto stesso che le dimensioni e le forme dei vasi impongano una distribuzione ritmica delle piccole figure dà alle composizioni figurate dei vasi un andamento facile, sciolto, cantabile: cosicché può dirsi che, almeno ai livelli qualitativi più alti, questi piccoli componimenti figurati costituiscono, più che una derivazione divulgativa, un raffinato, autonomo "genere" pittorico.
Nel corso della lunga, remota tradizione dell'arte ceramica la ricerca stilistica della figurazione procede di pari passo con quella della forma dell'oggetto: della curvatura armonica della superficie, dello sviluppo del volume nelle anse dei manici, del naturale sbocciare della forma dalla base d'appoggio. Le figurazioni, così nella distribuzione delle figure che nel loro andamento grafico, sono necessariamente in rapporto con la forma dell'oggetto; e a questa necessaria relazione si adegua anche la scelta, sempre molto sobria, dei colori, che vengono distesi in zone piatte, aderenti alla superficie.
Nei vasi a figure nere, che costituiscono il primo tipo della grande produzione attica a partire dal VII secolo, le figure sono campite con una vernice nera e brillante sul fondo rosso della creta cotta; i particolari sono ottenuti a graffito, asportando con una punta la vernice e lasciando scoperta la creta. La pittura appariva piatta, lineare, nettamente stagliata, con le figure viste di profilo.
Alla fine del VI secolo appare un procedimento inverso: si campisce di vernice nera tutto il corpo del vaso, lasciando scoperte (rosse) le figure; all'interno di esse si disegnano i particolari con un pennello intriso della stessa vernice nera del fondo. Un segno nero sul rosso impressiona l'occhio più di un segno rosso sul nero; inoltre un segno tracciato con un fine pennello è più morbido, più leggero, più sensibile al movimento agile delle dita che non un segno inciso con una punta. Con questo nuovo procedimento, più raffinato, si fa più frequente l'intervento di disegnatori artisticamente qualificati: l'artigiano cede più spesso il posto all'artista. E non di rado, come provano le firme, si tratta di personalità artistiche ben definite: come PSIACE, EUTIMIDE, Duride etc.
Ancora più raffinati sono i vasi di ceramica a fondo bianco, sui quali l'artista traccia le figure linearisticamente, a punta di pennello: il contorno, non essendovi più limite tra due zone colorate, si fa ancora più sensibile, più libero, più capace di suggerire, pur nell'unità della superficie, un sottile sviluppo plastico.
I paralleli sviluppi della grande pittura e della pittura vascolare si interrompono quando la pittura si volge a ricerche di rappresentazione plastica di spazio e di movimento: a partire dalla metà del IV secolo la decorazione della ceramica non può più considerarsi come un ramo complementare della grande pittura e diviene di fatto mera applicazione artigianale di forme artistiche alla produzione economica.

2 commenti:

  1. Il libro di storia dell'arte più bello che abbia mai lettto...

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  2. grazieeeeeeeeeeeee il prof mi ha dato 9 grazie 1000...

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